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Fakebook

 
La maggior parte delle storie, tranne quelle nella categoria "Scritte da me" o "Scritte da voi" sono prese dal sito Creepypasta Italia Wiki

Hunters

Jade: ragazzi siamo al 3500 likes su fb!!!!

Nat: Ma tu alle sei e mezza controlli facebook?

Jade: eh sai mentre mi preparo per scuola..

Mark: Spacchiamo 😉 è grazie al singolo

Nat: Certo bro, coi tuoi riff di chitarra…

Tom si maledisse per l’ennesima volta; aveva dimenticato di mettere in silenzioso il cellulare e ora l’avviso di una serie di messaggi su WhatsApp gli stava facendo perdere le staffe. E chi poteva essere se non quei pazzi dei suoi compagni di band?

Erano le sette meno cinque, decisamente troppo presto. Del resto il pullman sarebbe passato alle otto meno dieci, quindi lui voleva sfruttare tutto il tempo che aveva a disposizione per crogiolarsi nel caldo accogliente delle coperte.

Tom era un ragazzo di diciotto anni che amava suonare la batteria; la sua pigrizia cronica era ormai famosa in tutto il continente, e di conseguenza il suo ritardo per ogni cosa.

Per evitare che la suoneria disturbasse ancora il suo dormiveglia dovette afferrare il cellulare e, dato che ce l’aveva in mano, lesse i messaggi.

Si ritrovò a sorridere tra sé e sé: da pochi giorni era stato pubblicato il loro primo singolo accompagnato da un modesto videoclip e bisognava ammettere che stava riscuotendo un discreto successo.

Non era facile emergere per un gruppo rock qualsiasi di un paesetto qualunque degli Stati Uniti, ma per il momento Tom e i suoi amici pensavano a divertirsi e diffondere la loro musica più che potevano.

Mezz’ora più tardi il batterista fu costretto ad alzarsi. Aveva impostato come sveglia proprio il nuovo brano della band, Voices In Your Head, che cominciava con un colpo secco sul rullante e un grido della chitarra distorta al massimo; si può solo immaginare quanto fosse traumatico il risveglio del ragazzo ogni mattina, però quel metodo funzionava e lui non poteva fare a meno di lasciare il suo letto.

Mentre Tom si trovava – miracolosamente – in pullman e tentava di calmare il fiatone provocato dalla corsa, aprì l’applicazione di facebook e constatò che la pagina degli Evil Hunters aveva raggiunto 3502 likes. Era un grande traguardo per loro.

Era un freddo pomeriggio di febbraio e gli Evil Hunters al completo si trovavano nella mansarda della casa di Tom per le prove.

“Stamattina quando ero al lavoro mi è venuto in mente questo giro. Sentite!” esclamò Nathan, imbracciando il suo basso e concretizzando l’idea che gli frullava in testa da ore ormai.

Nathan aveva diciannove anni, lavorava in una piccola impresa edile e appariva come il classico ragazzo svampito.

“Aspetta… fammi sentire di nuovo… secondo me per la prima nota ci starebbe meglio un do. Prova” gli consigliò Mark, facendo volare il suo plettro in aria e riprendendolo tra pollice e indice.

Il bassista ritentò e gli altri tre convennero sul fatto che quella linea di basso fosse una buonissima base per una nuova canzone.

Tom quindi impugnò le sue amate bacchette e prese a improvvisare un ritmo finché i due non furono in sintonia.

“Cazzo, ma che ha questo coso?” inveì Jade, cantante e chitarrista ritmica del gruppo, armeggiando con il suo cellulare e sbattendolo ripetutamente sul bracciolo della poltrona in cui stazionava.

Jade aveva quasi diciannove anni e, nonostante la corporatura esile, non esitava a portar fuori il suo carattere forte e in certe occasioni per niente femminile. Non sarebbe potuta sopravvivere altrimenti in una band formata da soli maschi.

“Cosa ti ha fatto adesso?” s’informò Mark, avvicinandosi a lei.

“Dovrebbe uscire la nostra pagina qua, di lato, dato che sono amministratrice… ecco, per qualche strano motivo non compare!” spiegò la ragazza spazientita.

“Magari il sito ha dei problemi. Riprova più tardi” tagliò corto Mark con la sua solita aria serafica e rilassata.

Mark, l’hacker del quartetto, aveva vent’anni e quando si esibiva dava un’immagine totalmente sbagliata di sé: la folta chioma di capelli mossi e gli assoli folli che si inventava con la chitarra erano in contrapposizione con il suo essere tranquillo e quasi flemmatico.

“Un attimo! Non c’è neanche sul mio profilo!” intervenne Nathan, grattandosi la testa quasi pelata per via del cortissimo taglio di capelli.

“E chi se ne frega adesso? Non stavamo suonando?” fece notare Tom, lanciando un’occhiata annoiata ai suoi amici da sotto la visiera del cappellino che indossava.

“Okay. Ricordate che, quando ho creato la pagina, ho impostato un’email e una password a sé stanti in modo che si potesse accedere anche senza entrare nei nostri profili? Adesso provo ad aprirla così” decise Mark, ignorando del tutto il batterista.

Il chitarrista prese posto sul bracciolo della poltrona accanto a Jade e tirò fuori un cellulare talmente grande che si sarebbe potuto scambiare per un tablet. Sapeva utilizzarlo con una rapidità e un’abilità impressionanti.

“Non mi fa entrare nella pagina” affermò con un sospiro, cercando di mantenere la calma.

“Come sarebbe a dire? Cazzo, ci hanno fottuto la pagina?!” esplose Nathan.

“Non vorrei giungere a conclusioni affrettate, magari facebook non funziona bene in questo momento, ma mi sembra strano. Se non dovesse ricomparire, c’è solo una spiegazione: un hacker se n’è impossessato, ha tolto la gestione a tutti e quattro e cambiato la password” spiegò Mark, alzandosi e poggiando il suo monumentale telefono su una sedia.

“Quindi ci hanno fottuto la pagina” concluse Tom con aria esasperata. “Ma adesso non pensiamoci, dai! Che ne dite di suonare?” tentò poi di risollevare l’umore ai suoi amici.

“E dire che avevamo raggiunto 3500 likes con molta fatica… ma questi nerd rincoglioniti non hanno altro da fare tutto il giorno? Perché non si fanno una vita al posto di rubare pagine altrui?” continuò a borbottare Jade con cipiglio irritato.

“Grazie per il complimento eh…” le fece notare Mark.

Lei in tutta risposta gli regalò una smorfia e gli tirò una ciocca di capelli.

“Hai birra?”

Alla domanda di Nathan, Tom si fermò a riflettere; dopodiché si alzò dal suo posto dietro la batteria e lasciò la stanza.

“E se provassi dal pc?” propose Mark in tono rassegnato, con uno sbuffo.

“Cosa cambia?” ribatté Jade in tono nervoso.

“Non ho birre!” annunciò Tom, rientrando nella stanza dopo una breve incursione in cucina; in compenso stringeva tra le mani un pacco di patatine.

“Ci hai messo trenta secondi, come è possibile?” si domandò Mark tra sé, mentre portava fuori da una borsa nera il suo portatile.

“Grazie al mio metro e sessantotto. Sono agile, ma non lo dimostro perché sono pigro! Cosa state facendo? Non avete risolto niente?” s’informò, mentre gli altri tre si fiondavano sulle patatine come se non toccassero cibo da giorni.

Per circa un minuto nella stanza risuonò solo il ruminare dei ragazzi e il ticchettio dei tasti che Mark premeva a una velocità impressionante.

“Cos’era quella?” sbottò Tom, indicando lo schermo.

“Quale?” domandò il chitarrista perplesso.

“Là, dove in genere appare la nostra pagina, qua di lato… c’era una scritta, poi è scomparsa, non ho fatto in tempo a leggere!”

“Le scritte non scompaiono nel nulla, devi essertela immaginata” tagliò corto l’altro.

“Ha ragione Tom, l’ho vista anch’io per un attimo” intervenne Nathan, che nel frattempo aveva già fatto fuori almeno mezzo pacco di patatine.

I quattro si lanciarono occhiate perplesse; proprio in quel momento il cellulare di Jade prese a squillare, spaventando tutti con un assurdo stridio di chitarre.

“Mia sorella” constatò la ragazza, per poi portarsi il telefono all’orecchio.

“Mel… sì, siamo tutti qui, perché?… In effetti abbiamo problemi con la pagina, è come se un hacker ce l’avesse… Cioè? Ti è apparsa una pagina che non conosci nella home di facebook… Un nostro post? Come cazzo è possibile?”

“Cos’è successo?” si intromise Mark.

“Mel, aspetta un attimo. Si è ritrovata nella home di facebook un post di una pagina dal nome strano che non conosceva, l’ha aperta e ha trovato tutti i likes dei nostri seguaci e un post che avevamo scritto noi tempo fa in cui pubblicizzavamo un evento.”

“Come si chiama la pagina?” chiese allora lui, scattando davanti al pc come farebbe un soldato prima di una battaglia.

“Mel, come si chiama la pagina?… Maya- che? Spelling, per favore!”

“Aspetta, forse l’ho trovata! Dovrebbe essere questa: Mayanetsuradoki. Oddio, ma che nome è? C’è anche il mio like” esclamò Mark.

Jade salutò la sorella e tutti si precipitarono davanti allo schermo, curiosi.

“Oh merda, quello l’abbiamo condiviso noi mesi fa! È l’unico post presente?” fece Nathan.

“No, l’hacker ha già modificato l’immagine del profilo e di copertina. Immagini di vari anime e manga… però il bastardo si è dimenticato di eliminare questo nostro post. Poco furbo, devo dire” replicò l’altro.

“Tutti i likes, tutti i progressi… andati a puttane così, per colpa di uno stronzo qualunque!” si disperò Jade, nascondendo il viso tra le mani.

“Mark, tu che sei cresciuto davanti a un computer, illuminaci: si può scoprire chi è stato? Si può recuperare la pagina?” chiese Tom con lo sguardo pieno di fiducia.

“Posso scoprire chi è stato, penso di riuscirci. Non so se potremo recuperare la pagina, ma le informazioni sì. Mi metterò al lavoro stanotte, tanto non ho nulla di meglio da fare.”

“E se invece lo facessimo tutti insieme domani qui da me? Almeno parteciperemmo anche noi allo svolgimento delle indagini. Sono curioso!” propose Tom.

“Domani tutti qua! Ne approfittiamo per mangiarci un cheeseburger tutti insieme, che ne dite?” aggiunse Nathan, stravaccandosi sulla poltrona e facendola scricchiolare sotto il suo peso; il bassista infatti era alto almeno un metro e ottanta e i suoi muscoli gli davano un’aria vagamente minacciosa. Jade certe volte si divertiva a chiamarlo buttafuori.

“Ma tu pensi solo a mangiare? E va bene, domani al crepuscolo invaderemo la mansarda di Tom!” accettò la ragazza con aria teatralmente solenne.

I quattro si separarono con l’umore a terra: certo, la perdita della pagina facebook non avrebbe compromesso la loro carriera di musicisti, ma era un bel problema e soprattutto non sarebbe stato facile raggiungere nuovamente tutti quei likes.

Jade era distesa sul suo letto e chattava con diverse persone; la perplessità per quanto riguardava la pagina degli Evil Hunters si era ormai propagata tra amici e conoscenti, al che aveva deciso di aggiornare il suo stato per spiegare la situazione.

A un tratto lasciò andare il telefono e si alzò per raccattare i suoi auricolari; quando tornò a stendersi sul materasso, si rese conto di un insistente lampeggiare sul display.

Era infatti apparsa, nella home del suo profilo, una finestra sospetta che riportava la scritta:

Clicca qui per Mayanetsuradoki. Non ignorare questo messaggio.

Jade, tra un’imprecazione e l’altra, provò in tutti i modi a chiudere quel fastidioso riquadro, ma non voleva saperne di andare via. Tentò di uscire dall’applicazione di facebook e di spegnare il telefono, ma quest’ultimo sembrava non rispondere ai comandi; intanto il display continuava a lampeggiare e Jade non lo sopportava più, la infastidiva e le faceva girare la testa.

Infine, in preda alla disperazione, decise di cliccare su quella scritta.

Un abbagliante flash bianco, poi tutto nero come pece.

La ragazza sobbalzò e si strofinò gli occhi accecati da quell’istante di luce tanto intensa. Soppesò lo smartphone tra le mani per qualche secondo, poi prese a sibilare: “Ti prego, un virus no… ‘fanculo! Cazzo, cos’era quella cosa?”

Prese qualche respiro profondo per calmarsi: il cuore le martellava come impazzito nel petto e un’ondata d’ansia si era impossessata di lei, facendole provare un leggero senso di nausea. Quella faccenda non le piaceva per niente.

“Okay, okay… per scoprire che sta succedendo devo riaccenderlo” si disse, stringendo forte l’apparecchio tra le mani e fissando l’ipnotico vuoto dello schermo in cerca del coraggio per premere il tasto di accensione.

Mentre scrutava il nero, le parve quasi di scorgere un punto luminoso, simile a una stella, che pian piano si espandeva fluidamente, quasi avesse vita propria.

Jade scaraventò l’oggetto sul materasso e fece un balzo indietro, scuotendo la testa e incapace di aprir bocca.

Probabilmente stava impazzendo: il suo cervello non faceva altro che elaborare e rielaborare le informazioni su quell’hacker misterioso e questo le stava facendo perdere la testa, la stava suggestionando.

Ma quella scritta non l’aveva immaginata, ne era sicura.

Dopo qualche minuto, quando riuscì di nuovo a respirare regolarmente, si avvicinò con cautela al suo letto.

Il display mostrava la sua home page di Facebook, senza nessuna traccia di strane finestre. Come se nulla fosse accaduto.


Hacker vs Hacker

Nathan non sapeva dove si trovasse: era avvolto dalla semioscurità e sentiva la pressione dell’aria umida sulla pelle; regnava il silenzio, tranne per l’insistente ticchettio di una goccia che riecheggiava in maniera sinistra tra le grigie pareti.I muscoli delle sue gambe erano intorpiditi, ma nonostante ciò qualcosa che non sapeva definire, forse una forza esterna a lui, lo spingeva a muoversi ed esplorare quell’ambiente sconosciuto. Camminava come un automa, senza sapere la direzione in cui si stava dirigendo; i suoi occhi furono calamitati da uno spiraglio di luce e così smise di prestare attenzione a dove metteva i piedi. I suoi passi intanto rimbombavano con una tale potenza da farli sembrare dei colpi secchi e violenti.

Non appena giunse nei pressi della fonte luminosa, si rese conto che si trattava di un punto in cui le travi ormai marce del soffitto avevano ceduto, lasciando trapelare un fioco raggio di luce.

Nathan si rese conto che il continuo martellare della goccia si era fatto più vicino, anche se non riusciva a capire da dove provenisse. Volse lo sguardo al soffitto e rimase agghiacciato: la sagoma di una ragazza dalla pelle diafana dondolava leggermente poco sopra il suo capo. Il collo aveva assunto una posizione innaturale ed era stretto attorno a una corda intrisa di sangue.

Sotto il cadavere, sul pavimento, si stava formando una pozza purpurea.

Il suono della sveglia fece sobbalzare Nathan, che si mise a sedere di scatto con gli occhi sbarrati e interruppe frettolosamente quel fastidioso trillare proveniente dal suo cellulare.

Poche volte gli era capitato di fare incubi che lo sconvolgessero tanto, ma quel sogno sembrava così reale: aveva sentito tutte le sensazioni, i rumori, gli odori, le immagini, come se si fosse trovato davvero in quell’edificio diroccato.

Prese un paio di respiri profondi e il suo cuore tornò a battere a un ritmo regolare dopo qualche secondo.

Il ragazzo si concentrò quindi su quello che lo attendeva durante quella giornata: una nuova giornata di lavoro e poi la serata con i suoi amici della band per indagare sul misterioso hacker.

Avrebbe raccontato loro quel sogno per farli spaventare un po’. Se la sarebbe spassata.

“Eccomi ragazzi, vi ho portato la cena!” esordì Jade quando Tom le aprì la porta di casa.

La ragazza teneva con entrambe le braccia un carico fumante di buste di cartone contenenti una quantità industriale di cibo da fast food.

Il batterista la accolse con un sorriso e la lasciò entrare; lei abbandonò le provviste sul tavolo e salutò Mark e Nathan, intenti a sfidarsi in una partita a Tekken.

“Dai, mangiamo! Io ho fame!” propose Tom, sbirciando dentro i pacchetti e annusando il delizioso profumo che invadeva la stanza.

“Ah! Ti ho battuto, stronzo!” gridò il bassista, abbandonando il joystick sul divano e mettendosi in piedi con aria trionfante.

“Comunque io voglio la rivincita” borbottò l’altro, stiracchiandosi e riponendo tutto al suo posto dopo aver spento la tv.

“Io invece voglio mangiare. Tom, cosa ci offri da bere?” chiese Nathan, avvicinandosi al tavolo.

Tom intanto aveva preso ad armeggiare con lo stereo per mandare un po’ di musica come sottofondo. “Boh, guardate cosa è rimasto. È tutto in frigo.”

I quattro amici si spartirono panini e patatine fritte, poi cominciarono a chiacchierare serenamente.

“Stanotte ho fatto un sogno…” bofonchiò Nathan con la bocca piena di cibo e un pezzo di cipolla che gli pendeva da un lato, in piena vista.

Jade sbuffò. “Potresti finire di masticare prima di iniziare a raccontare? Sai, non voglio rivedere il mio cibo qua sul tavolo sotto un’altra forma per colpa tua” lo rimproverò disgustata.

“Un vero rude boy non tiene conto di queste cazzate” proseguì lui imperterrito, dando un altro morso al suo hot dog.

Rude boy…” commentò Mark con aria dubbiosa.

“Stai zitto tu: batterti a Tekken è stata una passeggiata!”

“Avete finito di girare il film d’azione? Puoi andare avanti con il racconto del sogno?” tagliò corto Tom, spazientito.

Il bassista degli Evil Hunters descrisse il suo incubo nei minimi dettagli, ripercorrendo con la mente le terribili immagini che gli erano apparse davanti agli occhi.

“E quindi?” domandò infine Mark.

“E quindi niente, mi andava di raccontarvelo per vedere se vi sareste spaventati.”

“Uh, che paura…” sghignazzò Jade con sarcasmo.

“Okay, avete finito di mangiare? Cominciate pure a salire, io intanto butto questa roba nella spazzatura, faccio una gita in bagno e vi raggiungo subito” decise il padrone di casa, assistito dal suo solito senso pratico.

Jade, Mark e Nathan andarono a lavarsi le mani nel lavandino della cucina e poi salirono le scale che portavano alla mansarda, lasciando il batterista solo.

Tom rimise a posto tutto in men che non si dica e imboccò il corridoio immerso nella penombra per dirigersi al bagno. Mentre lo percorreva, la suoneria del cellulare lo avvisò dell’arrivo di una notifica su facebook; lo afferrò e lesse velocemente il testo:

Mayanetsuradoki ha aggiunto una nuova foto.

Strano, eppure era convinto di aver rimosso la pagina dalle seguite.

Guidato dalla sua incontrollabile curiosità, ci cliccò sopra e aprì la foto.

Con una prima occhiata non riuscì bene a capire cosa rappresentasse quell’immagine, poi la osservò più attentamente.

Su uno sfondo grigio era delineata una sagoma che pendeva dall’alto, con il capo rivolto all’insù e un rivolo nero che scorreva fino al margine della foto.

Tom quasi si lasciò cadere il telefono dalle mani: sembrava proprio la descrizione del sogno di Nathan, ma come era possibile? Come potevano le due cose essere collegate?

Il ragazzo fu costretto a distogliere lo sguardo; non riusciva a osservare quel corpo che ai suoi occhi pareva prendere vita e tridimensionalità.

Infilò nuovamente l’apparecchio in tasca e corse verso il bagno, per poi accendere la luce e chiudere violentemente la porta.

Tom si reputava una persona abbastanza razionale, ma ciò che aveva visto gli aveva inspiegabilmente fatto provare una pressante inquietudine.

Dopo aver ripreso piena padronanza di sé, decise che doveva assolutamente mostrare ai suoi amici la notifica che aveva ricevuto.

Ma quando posò nuovamente lo sguardo sul display, non c’era traccia della pagina Mayanetsuradoki.

Disperato e spaventato, Tom cercò una prova che dimostrasse la reale esistenza di quello che aveva visto: digitò il nome della pagina sulla barra di ricerca e la fece scorrere verso il basso.

L’ultimo post risaliva a quel pomeriggio. La foto non c’era più.

L’hacker deve averla cancellata qualche secondo dopo averla pubblicata e la somiglianza con la descrizione del sogno dev’essere una semplice coincidenza, si disse, tentando di mantenere la calma e aggrappandosi a quella spiegazione.

“Ieri mentre ero su facebook si è aperta una finestra strana che ha cominciato a lampeggiare, poi il cellulare si è spento ed è tornato tutto come prima. Non vorrei che quello stronzo di Maya-come-diamine-si-chiama mi abbia mandato in omaggio un bel virus” raccontò Jade mentre i componenti degli Evil Hunters attendevano che il portatile di Mark si avviasse.

Aveva volutamente evitato di raccontare la parte che l’aveva spaventata di più, ovvero la luce bianca che aveva visto nello schermo, perché era fermamente convinta di essersela immaginata e non voleva apparire agli occhi dei suoi amici come una pazza psicopatica.

“Allora un giorno di questi gli do un’occhiata per vedere se c’è qualcosa” affermò Mark, prendendo a digitare come un forsennato sulla tastiera.

“Cosa stai facendo?” gli domandò subito Nathan, curioso.

“Sto aprendo facebook attraverso questo programma per hacker: se tutto va bene, con questo dovrei scoprire a quale profilo o quale email è collegata ora la nostra vecchia pagina” spiegò, prendendo poi a imprecare tra i denti contro la connessione lenta e cliccando insistentemente con il mouse.

Tom sedeva sul bracciolo della poltrona perso tra i suoi pensieri, mentre Jade passeggiava nervosamente avanti e indietro alle spalle del chitarrista.

“Oddio…” mormorò quest’ultimo, fissando lo schermo con sguardo assorto.

“Cosa? Cosa hai trovato?” esclamarono gli altri tre, scattando in avanti e travolgendo Mark per poter vedere i risultati della ricerca.

“Ragazzi, aria… qui non compare niente e nessuno, è come se la pagina non esistesse nel web!” disse lui, indicando la finestra vuota con un punto interrogativo rosso al centro.

I quattro si scambiarono occhiate sbalordite, poi Jade, Nathan e Tom puntarono su Mark il loro sguardo con una domanda implicita e comune:e adesso che si fa?

“Tranquilli ragazzi, abbiate fiducia nel vostro chitarrista preferito; il bastardo non può vincere contro di me. Posso usare altri mezzi per trovarlo” li rassicurò lui con decisione, poggiando nuovamente la mano destra sul mouse come fosse un’arma da guerra.

Gli altri non furono più capaci di staccare gli occhi dal pc, seguendo passo dopo passo le azioni del loro amico nonostante non capissero granché di ciò che stava accadendo.

“Il dispositivo sta per esplodere… sì sì, interessante, levati dai coglioni… perché non si toglie?” inveì Mark contro una finestra arancione che non voleva saperne di andare via.

“Mi auguro sia una delle solite cazzate e che questo coso non salti in aria davvero” osservò Jade con le sopracciglia aggrottate.

“Tranquilla, è impossibile che esploda… però non si toglie, come faccio a continuare le ricerche?” sbuffò lui, provando diverse combinazioni di tasti.

Ma quell’arancione fluorescente era lì e sembrava ormai parte integrante della schermata.

Mezzo minuto più tardi, il pc prese a ronzare e sul desktop si materializzò un conto alla rovescia in caratteri cubitali. Tom fece un balzo indietro, impaurito, Mark cominciò a imprecare, Jade e Nathan trattennero il fiato, incapaci di muoversi.

Il computer si spense con un lampo bianco: ma prima che divenisse del tutto nero, due occhi sbarrati si fissarono in quelli dei ragazzi per una frazione di secondo.

Jade gridò.

“Ma che cazzo… avete visto anche voi? Non ho le allucinazioni, vero?” sbottò il bassista, poggiandosi con una mano allo schienale della sedia per non perdere l’equilibrio.

“L’abbiamo visto tutti” mormorò Mark; senza perdere tempo si avvicinò nuovamente al suo portatile e, dopo un breve esame per scovare eventuali danni esteriori, lo riaccese.

“Cosa?” domandò Tom confuso, accostandosi nuovamente alla scrivania.

“Non l’hai visto? Erano… occhi, e ci fissavano” farfugliò Jade, stringendosi le braccia attorno al corpo.

“Potrebbe essere stato un effetto ottico. Un po’ di razionalità, su! Comunque il pc non è esploso, si sta riavviando ed è tutto a posto. Più tardi controllerò la presenza di eventuali virus” tagliò corto Mark.

“Ma che problemi hai? Vuoi davvero continuare a usarlo?” si rivoltò Nathan, andando a sedersi in poltrona.

“Davvero vi fate spaventare da un tizio che usa due trucchetti con un computer? Mi deludete.” Il ragazzo, nonostante tutto, si mostrava totalmente rilassato e i suoi amici si chiesero come fosse possibile che non si facesse suggestionare da quella faccenda.

Calò il silenzio nella stanza, interrotto solo dal ticchettio dei tasti e del mouse.

Fu Mark a interromperlo per primo, annunciando: “Trovato”.

“Cosa?” saltarono su gli altri tre, rivolgendogli tutta la loro attenzione.

“La pagina è collegata al profilo di un certo Anthony Keys… e questo è il suo profilo. Ah… non pubblica da circa un anno e mezzo.”

“Finalmente! E ora che l’abbiamo trovato?” esultò il bassista, alzandosi.

“Un attimo, voglio fare una ricerca su Google, magari trovo altre informazioni sul suo conto.”

Il ragazzo digitò il nome sulla barra di ricerca e cominciò a scorrere i risultati.

Jade si posizionò alle sue spalle e sbirciò le scritte che si susseguivano sullo sfondo bianco. “Cos’hai trovato?”

“Una serie di articoli. Un attimo, fammeli aprire. Parlano di un ragazzo morto in un incidente.”

Quando la pagina si caricò, la ragazza cominciò a leggere ad alta voce.

Le fiamme divorano una casa: tre feriti e un morto

La scorsa notte, nella periferia della cittadina di […], è scoppiato un incendio all’interno di una casa a seguito di un corto circuito. Il fatto è avvenuto intorno alle due e mezza. La casa, quasi interamente costruita in legno, ha preso rapidamente fuoco e per la famiglia che vi abitava è rimasto poco tempo per scappare; tutto si è concluso con l’arrivo dei vigili del fuoco, avvisati prontamente dai vicini. I coniugi e la figlia minore di soli 12 anni sono riusciti a salvarsi, seppur con qualche ferita; lo stesso non è stato per il ventenne Anthony Keys, deceduto durante l’incendio per l’esposizione alle elevate temperature e l’eccessiva inalazione di fumo.

“Non è detto che sia il nostro Anthony” rifletté Tom.

“Qui nell’articolo c’è una foto; perché non la confrontiamo con quelle del profilo facebook?” propose Nathan.

Mark annuì e con un paio di click alternò le due immagini sullo schermo.

Non c’erano dubbi: si trattava dello stesso ragazzo.

“Questo vuol dire che… che… stiamo combattendo contro un morto?” sussurrò la cantante, mentre i battiti del suo cuore le invadevano le tempie.

Improvvisamente gli occhi di Anthony Keys impressi sullo schermo sembrarono quasi prendere vita, intensità.

Erano due pupille dilatate, brucianti, folli.


Visions

“Aspettate ragazzi, aspettate, non fatevi prendere dal panico!” esclamò Mark, mettendosi in piedi di fronte ai suoi amici, dando le spalle allo schermo del pc.

“Come te lo spieghi? Stiamo combattendo contro un morto!” sibilò Nathan aggrottando la fronte.

“Non è detto, c’è una spiegazione logica. Sapete quanto si sente parlare di profili facebook hackerati? Il tizio che ci sta giocando questi brutti scherzi potrebbe semplicemente aver utilizzato l’account di Anthony, dato che nessuno lo usava più da tempo” spiegò il chitarrista con una scrollata di spalle.

“È un bastardo, impossessarsi del profilo di qualcuno che è venuto a mancare è un gesto di pessimo gusto!” commentò Jade, indignata.

“Jee, queste cose capitano purtroppo.”

“E noi come facciamo a capire se stiamo combattendo con una persona o con uno spettro?” intervenne Tom, ancora leggermente tremante per lo spavento preso. La sua razionalità e quegli eventi inquietanti non andavano d’accordo; riusciva sempre a dare una spiegazione logica a tutto e quando non aveva tutto sotto controllo veniva sopraffatto dall’agitazione.

“Mmh, allora… dovrei innanzitutto risalire al luogo e al dispositivo da cui viene gestito il profilo. Nulla di più facile!”

“E perché non l’hai fatto prima allora?” lo apostrofò la ragazza in tono irritato.

“Perché con una pagina è più difficile” tagliò corto Mark, sedendosi nuovamente al suo posto.

“Vedi di darti una calmata, Jade! Siamo tutti agitati, non sei l’unica!” si rivoltò Nathan.

“Ma cosa vuoi?” sbottò lei, fulminandolo con un’occhiataccia.

“Smettila di rispondere così e usare quel tono, il fatto che sei spaventata non ti dà il diritto di comportarti da stronza! E che cazzo, Mark si sta facendo in quattro per scoprire cosa sta succedendo e tu sai solo lamentarti!”

“Nathan, fatti i cazzi tuoi! Mark non si è arrabbiato e tu comunque non sei il suo avvocato! Quello nervoso qui sei tu!” ringhiò Jade, incrociando le braccia al petto.

“Io? Ma ti rendi conto di come mi stai rispondendo? Hai le tue cose per caso?”

“Ma vaffanculo Nathan, ognuno ha il suo modo di reagire!”

“Oh, insomma, la volete finire di gridarvi contro o volete far sapere a mezza America i fatti vostri? Sembrate due bambini dispettosi, ma quand’è che crescete? Tra l’altro le orecchie di Mark sono a un metro e mezzo da voi, non so quanto possa fargli piacere questo vostro squallido teatrino!” intervenne Tom, infastidito dal comportamento dei suoi amici.

“Tu stai zitto, ne ho anche per te!” lo attaccò la ragazza.

“Voi mi farete impazzire prima o poi… Jade, esci da qui e vai a prendere una boccata d’aria per calmarti. Non è proprio il momento per litigare” ordinò il batterista avvicinandosi agli altri.

“Sì, è meglio se esco. Siete una mandria di idioti, non vi sopporto” concluse la cantante, avviandosi a passo di marcia verso l’uscio.

“Oh, finalmente un po’ di calma! Benissimo, ora cerco di rintracciare questo Keys o come diamine si chiama” affermò Mark e, come se nulla fosse, riprese a picchiettare sulla tastiera.

Gli altri due gli si accostarono, curiosi.

“Cosa stai facendo adesso?” s’informò Tom.

“Risalendo all’indirizzo IP.”

“E cos’è?”

“In parole povere, un codice collegato al dispositivo da cui il nostro amico hacker accede a internet.”

“E a cosa serve?” domandò Nathan confuso.

“A scoprire dove si trova l’hacker. Non è detto che funzioni, magari utilizza un dispositivo diverso ogni volta per non farsi rintracciare.”

“Ma tu come fai a essere sempre così… tranquillo? Sembra quasi che non te ne importi niente di tutta questa storia” osservò il bassista, prendendo a camminare avanti e indietro.

“Gli esperti di tecnologia, quelli bravi veramente, possono fare qualsiasi cosa: mandarci virus, proiettare immagini nei nostri schermi, farci credere di vedere cose che non ci sono, far impazzire cellulari e computer… ma a noi non possono fare tutto, il loro potere si ferma alla tecnologia. Quindi perché preoccuparci?”

La spiegazione del ragazzo effettivamente non faceva una piega ed ebbe anche il miracoloso effetto di tranquillizzare gli altri due.

Trascorsero circa due minuti di silenzio. Nathan, Mark e Tom cominciarono a chiedersi dove fosse finita Jade, ma nessuno espresse ad alta voce quel pensiero.

“Uff, e adesso cos’è questa cosa?” sbuffò Mark, battendosi una mano sulla fronte.

“Una finestra di internet… nera. Sembra quasi una videochiamata di Skype, ha la stessa grafica. Ma tu non hai Skype aperto, giusto?” disse Tom, esaminando con lo sguardo il nuovo dilemma della serata.

“Certo che no! E ovviamente non si chiude. Non può essere una chiamata di Skype, la spia della videocamera è spenta.”

“E quelli?” mormorò Nathan, fissando i suoi occhi in quelli bianchi e brillanti che erano apparsi nel buio di quella nuova finestra.

I tre trattennero il fiato e Tom indietreggiò con uno scatto, andando a sbattere contro il bracciolo della poltrona.

Gli occhi improvvisamente si mossero, come se la persona a cui appartenevano avesse inclinato la testa da un lato. Erano sbarrati, assurdamente grandi, e le ciglia non sbattevano mai; le iridi non avevano un colore indefinito, si fondevano con il nero delle pupille.

Quei due occhi guardavano davvero i ragazzi, sembravano volerli perforare con lo sguardo. E loro si sentivano incapaci di compiere qualsiasi movimento, paralizzati, congelati e saldati al pavimento.

D’un tratto un lampo di luce inondò il riquadro nero e solo per un istante al suo interno si delineò una figura umana, un volto deturpato da dei lividi o da delle ferite, con un rivolo scuro che sgorgava dalle labbra.

Gli occhi erano sempre lì, con la loro fissità.

Poi quella strana finestra scomparve e la schermata del computer tornò quella di prima.

“E-era un… un…” balbettò Tom con gli occhi sgranati.

“Era un fake, un fottuto fake. Avranno preso quell’immagine da un film per giocarci un brutto scherzo” affermò Nathan, più per convincere se stesso che gli altri.

“Non capisco… secondo voi era un ragazzo o una ragazza? Voi l’avete notato? È durata solo un attimo…” farfugliò Mark, cercando di fare chiarezza. In realtà cominciava ad avere paura anche lui: quella faccenda non gli piaceva e aveva paura di perdere il controllo su ciò che stava accadendo. Tuttavia mascherava questo suo timore perché i suoi amici avevano bisogno di un punto di riferimento, qualcuno che fornisse loro una spiegazione e li tranquillizzasse in ogni momento, e a ricoprire quel ruolo era sempre stato lui.

Sentiva quegli occhi ancora addosso, come se si nascondessero dietro il suo computer.

“Non sono riuscito a capirlo, comunque non credo serva a qualcosa saperlo” constatò Nathan.

“E le ferite… cos’erano? Aveva delle cose scure, ma non ho visto se si trattava di lividi, tagli o…” rifletté il batterista, incrociando le braccia per nascondere il tremito delle mani.

“Ustioni?” completò Mark al posto suo, ricollegando le ferite all’incendio in cui aveva perso la vita Anthony Keys.

Un grido proveniente dal piano di sotto interruppe la conversazione e fece sobbalzare i tre.

Jade.

Jade sentiva la rabbia montare dentro di sé, ma allo stesso tempo sapeva che quel nervosismo era dovuto esclusivamente all’ambigua situazione in cui lei e i suoi amici si erano cacciati. Non ce l’aveva con Nathan, il suo era stato solo uno sfogo.

Decise di uscire per fumare una sigaretta; si diresse verso la porta d’ingresso e, una volta all’aria aperta, armeggiò con accendino e pacchetto. Il fumo ebbe subito il suo effetto calmante e la ragazza credette di poter ragionare più lucidamente dopo aver aspirato le prime boccate.

Non aveva idea di che ore si fossero fatte. Constatò dal suo cellulare che mancava poco più di un quarto d’ora a mezzanotte; lei e il resto della band avrebbero dovuto concludere le indagini al più presto perché presto i genitori di Tom, fuori per una cena con amici, sarebbero rincasati.

Il suo telefono prese a vibrare dopo appena qualche secondo che lei l’aveva riposto in tasca. Lo afferrò nuovamente con la convinzione che uno dei ragazzi le avesse scritto un messaggio; invece si trattava di una notifica della chat di facebook.

Il suo cuore perse un battito quando lesse il nome del mittente: Mayanetsuradoki.

Le pagine non possono inviare messaggi ai profili, rifletté. Intanto esitava di fronte al messaggio ancora chiuso, indecisa se aprirlo o meno. Il cellulare aveva già dato dei problemi il giorno precedente, non voleva rischiare di installare qualche nuovo virus; tuttavia la curiosità era troppa e Jade non poté resistere.

Io mi sto divertendo, voi? È un bel gioco questo!

La ragazza aggrottò la fronte e decise di rispondere a quell’hacker che aveva finalmente deciso di palesarsi. Sarebbe dovuta salire dai suoi amici e consultarsi prima con loro, ma la sua impulsività le suggerì di proseguire subito quella conversazione.

Voglio sapere chi sei e cosa vuoi da noi.

Con calma, scoprirete tutto… forse. Non è detto che io voglia qualcosa da voi.

E allora perché ci hai preso di mira?

Intanto aveva spento la sigaretta e si accingeva a tornare in casa; l’ansia che le provocavano quei messaggi la spingeva ad accendersene subito un’altra, ma non le andava di stare là fuori al buio da sola.

Non lo so, mi sembrava una cosa divertente! Siete pronti a continuare il giochetto?

Salutami tanto il tuo amico nerd a cui piace fare il detective!

E tu che ne sai? Lasciaci in pace e noi lasceremo in pace te!

Jade si trovava nell’andito mentre digitava quel messaggio e stava proprio per imboccare la rampa di scale per tornare in soffitta, quando l’apparecchio che stringeva convulsamente tra le mani prese a vibrare insistentemente come fosse impazzito e il display divenne completamente bianco, di un bianco accecante capace di rischiarare la penombra della casa.

La ragazza cominciò a sentire una stretta attorno al collo, sempre più forte e pressante, che le toglieva il respiro sempre più; prese ad ansimare e boccheggiare in preda alla disperazione, l’aria le mancava e si dibatteva con gli occhi sgranati. Non sapeva spiegare cosa la stesse imprigionando, ma sentiva chiaramente il contatto di una corda sulla pelle del suo collo.

Jade cominciò a piangere. La stretta aumentava ogni secondo di più e lei sapeva che, se fosse andata avanti di questo passo, non avrebbe resistito ancora a lungo.

Un terrore cieco la assalì e lei scoppiò in lacrime, barcollando e urtando ciò che la circondava senza quasi rendersene conto. Il panico ormai si era impossessato di lei; si portava le mani al collo per cercare di allentare quella corda, ma le sue dita non afferravano nulla: la sua pelle in realtà era scoperta.

Quando ormai credeva di essere arrivata al suo limite di resistenza, un’immagine rischiarata da un’aura brillante esplose all’improvviso davanti ai suoi occhi: si trattava di un viso dai tratti appena accennati, come se fosse costituito da schizzi di carboncino, deturpato da enormi macchie scure dai margini sfumati. L’unica cosa ben delineata erano gli occhi sbarrati e neri, che davano l’impressione di avere vita propria.

Jade riuscì solo in quel momento a lanciare un grido carico di terrore. Incapace di osservare quel fotogramma, serrò gli occhi con tutta la sua forza.

Non seppe bene come accadde, ma si ritrovò distesa sul pavimento, inerme. Si rese conto di aver perso i sensi solo quando questi si riattivarono; sentiva il pavimento freddo e duro sotto il suo corpo, le voci dei suoi amici intrise di preoccupazione che si scambiavano battute frenetiche e una mano posata sulla sua spalla. Socchiuse gli occhi e la luce della lampadina accesa glieli ferì, impedendole di mettere subito a fuoco i volti dei tre ragazzi che le ronzavano attorno.

“Jade, ci sei? Mi riconosci? Stai bene?” le domandò lentamente Mark, fissandola dritta negli occhi e ostentando una calma che di sicuro nemmeno lui possedeva in quel momento.

“M-Mark… oddio, ho preso una botta in testa” biascicò lei in tutta risposta, portandosi una mano sulla tempia. Sentiva il battito di cuore pulsare fastidiosamente in essa.

“Non so cosa sia successo, ti abbiamo sentito gridare e quando siamo arrivati eri svenuta” spiegò lui.

“Jade, ci hai fatto prendere un colpo! Cosa diamine ti è saltato in mente?” intervenne Nathan, palesemente preoccupato.

“Penso di dovervi raccontare qualcosa.” Detto questo la cantante degli Evil Hunters tentò con successo di mettersi seduta, nonostante la debolezza.

Mark le posò le mani sulle spalle per aiutarla a stare dritta e sostenerla. “Fai piano, non ti sforzare.”

“Jee, oddio… come stai? Ecco l’acqua! Ti fa male qualcosa in particolare? Hai sbattuto? Ci conviene portarla sul divano, aiutatemi!” strepitò Tom, accorrendo con una bottiglietta d’acqua in mano e una grossa dose di preoccupazione.

Tra tutti lui era il più emotivo: se in molte situazioni poteva risultare impassibile, entrava subito in ansia quando capitava qualcosa a una persona cara.

“Grazie Tom, grazie a tutti” disse la ragazza con riconoscenza, una volta preso posto sul divano. Sembrava essersi ripresa quasi del tutto ed era pronta a raccontare ciò che aveva vissuto.

Passò una mezz’ora in cui i ragazzi raccontarono ogni minimo dettaglio delle loro esperienze e cercarono un nesso tra tutti. Anche il batterista, inizialmente restio, raccontò della foto che gli era apparsa nello schermo del cellulare solo qualche ora prima.

Attribuirono tutto ciò che era logicamente spiegabile al lavoro del loro nemico informatico, mentre interpretarono il resto come semplice suggestione dettata dal coinvolgimento in quella faccenda. Erano pronti ad accettare di essere pazzi pur di escludere qualsiasi evento sovrannaturale.

“Io non ho voglia di lottare contro un idiota che ci vuole spaventare” affermò Mark con convinzione.

“Fa tanto lo spiritoso dietro uno schermo, ma che farebbe se lo andassimo a trovare?” saltò su Nathan con fervore.

Tom e Mark si scambiarono un’occhiata complice: stavano pensando la stessa cosa.

“Allora andiamo a trovarlo!” propose Jade, dando voce all’idea di tutti.

“D’accordo, devo fare solo un’ultima indagine per capire dove si trova esattamente questo tizio e poi si parte! Tenetevi pronti per domani, dobbiamo assolutamente farlo in questo weekend!” concluse il chitarrista, passandosi una mano tra i capelli scompigliati.

Era l’unità a dare loro la forza. Rassicurarsi a vicenda era l’unico modo per restare in piedi in mezzo a una battaglia che non erano certi di poter vincere.


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“Uff, sono stanco di questa storia, non vedo l’ora che finisca! Ormai la sedia ha preso la forma del mio culo… o forse è il contrario, che ne dite?” borbottò Mark, tornando al suo posto davanti al pc.

“Possibile che dobbiamo perdere la sanità mentale per colpa di uno stronzetto qualunque? Roba da denuncia!” commentò Tom spazientito.

“Okay, allora, sì… l’indirizzo IP. Ho vari programmi e vari metodi per scovarlo, quindi se non ne funziona uno posso sempre usarne un altro” spiegò il chitarrista, scostandosi per l’ennesima volta i capelli dal viso.

Jade si accostò a lui e raccolse la sua folta chioma di boccoli tra le sue mani, prendendo a giocherellarci distrattamente. Quando Mark si concentrava nel fare qualcosa, detestava quelle ciocche ribelli che puntualmente gli ricadevano sugli occhi.

“Io ho sonno ragazzi, non ne posso più! Io mi sveglio presto per andare al lavoro, cazzo! Adesso è quasi l’una!” si lamentò Nathan, abbandonato scompostamente sulla poltrona.

“E se saltasse fuori che l’hacker abita dall’altra parte del mondo? Non possiamo certo pagarci un viaggio per andare da un idiota che ci ha preso la pagina!” fece notare Jade, osservando Tom e Nathan con la coda dell’occhio.

“Vi prego, state zitti! Non avete neanche un’idea del mio mal di testa…” li ammonì Mark, posandosi una mano sulla tempia. In genere passare tanto tempo davanti a uno schermo non gli provocava nessun effetto collaterale, ci era abituato, ma il dilemma in cui erano stati coinvolti lo stava sfiancando.

Calò nuovamente il silenzio. Erano tutti troppo stanchi per romperlo.

“Cos’è questa cosa?” sibilò Mark, aggrottando le sopracciglia di fronte allo strano giochetto che gli si presentava di fronte.

Nello schermo, i numeri che avrebbero dovuto comporre l’indirizzo IP vorticavano e si rincorrevano, fuggivano da una parte all’altra come impazziti. Era un banco di segni bianchi che guizzavano in un mare blu, senza mai trovare il loro ordine.

“È una cosa normale?” s’informò il batterista, incrociando le braccia al petto e concludendo la frase con un sonoro sbadiglio.

“Certo che no, i numeri dovrebbero stare tutti su quella barra nera. Un altro scherzetto dell’hacker, nulla di cui preoccuparsi. Ora lo cerco con un programma migliore, scommetto che contro questo non troverà niente.”

Quando la stanza fu di nuovo immersa nel silenzio, il rumore dello scatto della serratura proveniente dal piano di sotto fece sobbalzare i ragazzi, ma poi compresero che si trattava dei genitori di Tom di ritorno dalla cena.

Il batterista decise quindi di scendere a salutarli, ma prima di lasciare la stanza intimò a Mark di fare in fretta perché era tardi e sicuramente i suoi si sarebbero voluti riposare.

“Oh, trovato finalmente! Vi do una buona notizia: il nostro amichetto si trova in un piccolo paese che dista due ore e mezzo di macchina da qui. Ci avrei scommesso! Bene, domenica alle nove del mattino tutti pronti, passo a prendervi e partiamo” strepitò Mark con entusiasmo.

“Per me non ci sono problemi e penso nemmeno per gli altri. Il problema adesso è: come facciamo a portare Nathan fuori di qui?” rispose la ragazza con aria divertita.

Inizialmente Mark non riuscì a capire a cosa si stesse riferendo Jade, ma scoppiò subito a ridere quando apprese che il suo amico si era addormentato sulla poltrona e ronfava beato, proprio come un bambino.

“Cosa mi sono perso?” si intromise Tom, facendo nuovamente irruzione nella stanza.

“Domenica mattina si parte alla ricerca dell’hacker, il viaggio durerà due ore e mezza o giù di lì. Mi raccomando, puntuale, non come tuo solito!” lo aggiornò Mark. Avvicinandosi a Nathan e scuotendolo sgraziatamente per un braccio.

“Eh? Ma che cazzo vuoi? Stavo dormendo…” farfugliò lui ancora con gli occhi chiusi e la voce impastata dal sonno.

Gli altri tre scoppiarono a ridere, scaricando un po’ di tensione accumulata in quella lunga ed estenuante serata.

“Mark, sei sicuro che stiamo andando nel posto giusto? Hai ricontrollato il nome del paese? E poi il tizio dove lo troviamo?”

“Jade, se non taci in questo esatto momento, giuro che apro la portiera e ti butto fuori dalla macchina!”

Nathan e Jade non facevano altro che battibeccare e punzecchiarsi da quando erano saliti in macchina, circa un’ora e mezza prima. Lei si trovava nel sedile posteriore accanto a Tom, ma non faceva che affacciarsi tra il posto del guidatore e quello del passeggero, inquieta.

Mark intanto guidava rilassato e cercava di non ascoltare i discorsi degli altri due, concentrandosi sulle canzoni che la sua radio di musica rock preferita passava e sulle notizie annunciate dagli speaker.

Tom invece si era isolato con un gioco per il cellulare, stanco anche lui di sentire cantante e bassista che blateravano.

L’auto di Mark intanto percorreva a gran velocità la superstrada ormai da parecchio tempo; a fianco a essa scorreva uno scarno paesaggio di campagna, intervallato ogni tanto da qualche piccolo villaggio. Il cielo era coperto da un sottile strato di nuvole che velavano e filtravano i raggi del sole.

I ragazzi non si sentivano quasi per nulla agitati: il fatto che si trovassero alla luce li rincuorava. Cosa mai sarebbe potuto accadere in pieno giorno? Era l’oscurità a spaventare, le tenebre impedivano una visione chiara di ciò che stava accadendo e facevano quindi perdere il controllo della situazione.

Il resto del viaggio proseguì abbastanza tranquillamente: i quattro chiacchierarono del più e del meno, canticchiarono qualche brano trasmesso in radio ed evitarono qualsiasi riferimento a ciò che avrebbero dovuto affrontare da lì a poco. La più irrequieta era Jade, che non la smetteva di agitarsi sul sedile e controllare ossessivamente l’orario sul display del suo cellulare.

Verso le undici Mark, sotto consiglio del navigatore satellitare, abbandono la superstrada per immettersi in una via secondaria. Quest’ultima non doveva essere asfaltata spesso, dato che la macchina prese a sobbalzare sulle numerose buche, impossibili da evitare.

“Oddio, ma stiamo andando in una fattoria? È inquietante…” commentò Jade, stringendo con forza una mano attorno alla sua cintura di sicurezza.

“Ho cercato il posto ieri: si tratta di un paese di campagna. Non preoccupatevi, se ci perdiamo darò la colpa al navigatore!” ribatté lui, piegandosi leggermente in avanti per evitare di sbattere la testa contro il tettuccio quando incrociavano qualche fosso peggiore degli altri.

“Grazie, così sì che ci hai rassicurato” borbottò Tom in tono ironico, riponendo il cellulare nella tasca dei jeans per concentrarsi maggiormente su ciò che stava accadendo.

“Sei irritante perché fai finta di avere sempre tutto sotto controllo” aggiunse Nathan.

Dopo una decina di minuti, le ruote dell’auto cominciarono a scorrere più fluidamente su una via asfaltata, anch’essa poco trafficata e circondata solo da campi incolti.

A quel punto l’agitazione si insidiò nei ragazzi insieme alla consapevolezza che stavano per giungere nel luogo in cui avrebbero trovato il loro nemico. Solo in quel momento guardarono indietro nel tempi, a qualche giorno prima, e si resero conto di non sapere neanche loro cosa li aveva portati fin lì. Erano stati loro a correre dietro all’hacker o era stato lui a trascinarli in quel macabro gioco fino a ossessionarli? Non se lo ricordavano più, forse non esisteva una vera differenza tra le due cose.

L’ultimo tratto del loro folle viaggio fu caratterizzato da un silenzio carico di tensione, mitigato solo dalle chitarre distorte diffuse dall’impianto stereo.

“È questo il paese. Ragazzi, siamo arrivati” annunciò l’autista, mentre una serie di casette di periferia scorreva loro accanto.

“E adesso?” La domanda di Jade fu appena udibile.

“Hai un indirizzo preciso?” s’informò Nathan, abbassando il volume della musica.

“Sì, sono riuscito a procurarmelo. Per fortuna per accedere a internet è stato utilizzato sempre lo stesso dispositivo, che è sempre stato nello stesso posto. Probabilmente è un computer.”

“io sto per avere un attacco di claustrofobia, in questa macchina c’è troppo caldo! Ci fermiamo da qualche parte per pranzo?” propose Tom, abbassando il finestrino per permettere all’aria fresca di entrare.

“Ma che problemi hai? Siamo in pieno febbraio, chiudi quell’affare!” sbottò la ragazza che sedeva accanto a lui.

Nessuno osò contraddirla: Jade si trovava in un momento complicato e come al solito reagiva a modo suo, mostrandosi infastidita per ogni minima piccolezza.

“Tom ha ragione, io sto morendo di fame” concordò Nathan.

Mark si limitò ad annuire e cominciare a cercare con lo sguardo un bar in cui acquistare un panino.

“Io ti dico che non può essere questo, abbiamo sbagliato tutto! Chi può essere così folle da portare un computer qui? E poi è impossibile che ci sia connessione!” ripeté per l’ennesima volta Jade, stringendo con forza la tracolla della sua borsa.

“Però le mie ricerche ci hanno condotto qui e io direi che è il caso di dare un’occhiata, non credi? Non ho guidato per due ore e mezzo fino a un villaggio sperduto nel nulla perché volevo fare una gita” la contraddisse Mark, cercando di mantenere la calma ed esaminando l’enorme struttura di cemento con lo sguardo.

I ragazzi avevano pranzato, avevano temporeggiato, ma verso le tre del pomeriggio si erano resi conto che non potevano più permettersi di perdere tempo e si erano recati all’indirizzo scoperto da Mark. Tutti si aspettavano di ritrovarsi davanti una comune casa, magari una tra le tante villette a schiera che caratterizzavano la zona residenziale del paese; erano rimasti sconcertati quando avevano avvistato un enorme cubo di cemento grigio palesemente abbandonato e diroccato. Doveva trattarsi sicuramente di un capannone, vista la presenza di una gran quantità di finestroni appena sotto il tetto; la porta, composta da assi di legno posate l’una sull’altra e tenute insieme da qualche chiodo, dava direttamente sull’ampio marciapiede.

“Però Jade non ha tutti i torti: nessuno entra in questo posto da anni, è palese” fece notare Tom, accostandosi all’ingresso e sfiorando il legno con indice e medio della mano sinistra.

“Per favore, spostatevi. Se stiamo qui ad aspettare che qualcuno di voi prenda una decisione, stanotte finiamo per dormire in macchina” s’intromise Nathan spazientito, affiancando il batterista e facendogli cenno di indietreggiare.

Per lui e la sua massa muscolare non fu difficile aprire quell’insieme di tavole ammassate l’una sull’altra.

“Cos’è questa puzza insopportabile?” commentò Jade con una smorfia disgustata.

I ragazzi furono infatti investiti da un’ondata d’aria umida impregnata da un forte odore di chiuso, polvere e qualcos’altro a cui non seppero associare nulla di preciso.

“Allora? Seguitemi!” ordinò con sicurezza il bassista, ignorando le espressioni dubbiose dei suoi amici.

“Mark, sei stato tu a trascinarci qui: se siamo entrati in questo schifo per niente, io ti faccio causa” bisbigliò Jade, aggrappandosi istintivamente al braccio del chitarrista.

L’ambiente che si presentò di fronte ai loro occhi appariva alquanto sinistro: le vetrate ricoperte da una cortina di polvere esibivano delle macchie verdastre che filtravano la luce proveniente dall’esterno, motivo per il quale la stanza era immersa nella penombra. Le pareti, macchiate di umidità e sporcizia, non erano mai state intonacate e in certi punti avevano ceduto, spargendo dei piccoli cumuli di macerie sul pavimento di cemento.

Alcuni pannelli dall’aspetto poco stabile fungevano da pareti divisorie, definendo così due o tre grandi camere.

Il freddo era pungente, accentuato dalla pressante umidità.

“Secondo voi ci sono topi morti? Non riesco a respirare…” sussurrò Tom, stringendosi il naso con due dita.

Mark prese a camminare per la stanza in cui si trovavano, analizzando ogni angolo con cura per trovare qualche indizio di una recente presenza umana. Ben presto anche gli altri, senza più lamentarsi o scambiarsi impressioni, lo imitarono, spostandosi a coppie in modo da sentirsi più sicuri.

“Qui non c’è niente. Passiamo al prossimo, qui c’è uno spiraglio per passare a un’altra stanza, tra questi due pannelli” concluse il chitarrista dopo qualche minuto, indicando un’apertura abbastanza larga da poter attraversare senza problemi.

I quattro, prima di darsi un’occhiata intorno, trattennero il fiato, timorosi di trovare qualcosa di poco gradito. In realtà non sapevano cosa aspettarsi, ma la suggestione del luogo e dei fatti dei giorni precedenti li accompagnava e li opprimeva in ogni passo che compivano.

“Oh, qui c’è un po’ più di luce” osservò Nathan, frugando con lo sguardo per tutto il perimetro del pavimento completamente sgombro da ogni ostacolo.

“No, anche qui non c’è niente. Che vi avevo detto? Cosa pensavate di trovare in questo posto?” esclamò Jade, impaziente di uscire all’aria aperta e rintanarsi in auto, diretta verso casa sua.

“Non abbiamo controllato l’ultima stanzetta, quella più piccola. Mi sembra di aver visto un passaggio anche per quella” obiettò Mark, invitando gli altri a uscire senza perdere tempo.

Tutti sembravano più tranquilli, come se avessero capito che ormai non c’era più niente ad attenderli e in un certo senso felici che la loro ricerca si fosse dimostrata infruttuosa.

“Ecco, quel pannello ha ceduto, si è formata una specie di porta. Andiamo?”

Alla proposta di Mark seguì un pesante silenzio.

Fu in quel momento che Nathan lo udì. Un insistente ticchettio, una goccia che cadeva a ritmo regolare e picchiettava su una superficie dura.

Il suo sogno.

“No, cazzo, andiamocene” farfugliò, immobilizzandosi a pochi metri dall’apertura tra i pannelli con gli occhi sbarrati. Il panico lo stava corrodendo e all’improvviso una serie di flashback gli si stava materializzando nella mente, scorrendogli di fronte agli occhi, così terribilmentereali.

“Cosa c’è?” gli domandò Mark con un sospiro.

“Io questo posto lo conosco, l’ho già visto, è quello del mio sogno… io qui non ci resto, addio!” balbettò, indietreggiando di qualche passo in direzione dell’uscita.

“Non è possibile, non puoi sognare qualcosa che non hai mai visto. Andiamo Nat, anche tu hai insistito per venire qui e adesso ci vuoi piantare?” gli si rivoltò contro Jade, indignata.

“Dai ragazzi, siamo tutti assieme, cosa ci potrà mai capitare?” tentò di rassicurarli Mark.

“Ma lì dentro qualcosa sta gocciolando!” protestò ancora il bassista, in preda al terrore.

“E quindi? Hai idea dell’umidità che c’è qua dentro?”

“Basta, mi avete stancato. Io entro, ciao!” sbottò Tom, sorprendendo tutti, non era proprio da lui prendere un’iniziativa, soprattutto in una situazione del genere.

Vedendo che il batterista si stava realmente dirigendo verso la terza stanza, anche gli altri gli furono subito dietro, curiosi e spaventati allo stesso tempo.

Sentivano il cuore in gola.

L’adrenalina a mille.

I muscoli quasi non rispondevano.

Fecero un passo in avanti. Insieme.

Un grido squarciò l’aria, riecheggiando tra le mura spoglie, ma nessuno dei ragazzi l’aveva emesso. Loro non ci sarebbero riusciti, troppo sconvolti da ciò a cui stavano assistendo.

Un vecchio computer era abbandonato a terra; nonostante non fosse collegato a una presa di corrente, lo schermo era acceso e qualcosa al suo interno si muoveva.

La tastiera era incrostata da una sostanza rosso scuro, tendente al nero. Delle gocce dello stesso colore, dense e pesanti, piovevano sui tasti. Nello schermo andavano intanto a formarsi delle parole, delle lettere, a ritmo di quel macabro digitare.

Dal soffitto, il corpo di una ragazza fissava i ragazzi con i suoi enormi occhi privi di palpebre. Senza vita.

Gridava. Era un grido straziante, troppo acuto per essere sopportato. Era un suono stridulo che faceva vibrare la sua gola scoperta e le sue labbra a brandelli.

Stringeva tra le mani una corda intrisa di sangue. Tuttavia non si trovava attorno al collo, segnato da una profonda ferita.

Fu quando le sue mani abbandonarono la fune che questa tornò a stringersi nuovamente attorno a quel lembo di pelle che lasciava intravedere il bianco sporco dell’osso. Il corpo si dibatté per qualche istante e poi giacque.

Il grido si interruppe con uno stridio che continuò a rimbombare, accompagnato dallo scricchiolio delle ossa in attrito.

Il viso, ancora dominato dagli occhi sbarrati, era deturpato da lividi, ferite e cicatrici scure e grumose sullo sfondo diafano della pelle.

Dalle vesti colavano copiosi e freschi rivoli di sangue. Pioveva rosso ovunque, tranne sullo schermo fastidiosamente bianco.

Gli Evil Hunters non riuscivano a muoversi e a gridare. Erano in uno stato di paresi; più quei due pozzi senza limite li fissavano, più si sentivano impotenti e intorpiditi.

Quasi non si resero conto dei loro cellulari che, all’interno delle loro tasche, avevano preso a vibrare. Quel tremito impazzito si diffuse per tutto il loro corpo, dominando i loro muscoli. Quella vibrazione aveva la forza di un terremoto, li possedeva completamente senza che avessero la possibilità di ribellarsi.

In preda agli spasmi e ai conati, i loro occhi appannati erano irrimediabilmente calamitati dallo schermo del computer e dal suo bianco accecante. Una scritta si era completata e si impresse senza rimedio nelle loro menti.

Sono cresciuta di fronte a uno schermo e di fronte a uno schermo sono morta. Io mi sono divertita in questo gioco, e voi?

Il gioco era finito e loro avevano perso.

Quelle furono le ultime, uniche parole.

Accompagnate dall’ossessivo e corrosivo ticchettio sui tasti.

Click. Click. Click.


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