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Gli Estranei

 
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Il mio nome è Andrew Erics. Ho vissuto, una volta, in una città chiamata New York. Mia madre è Terry Erics. È sull’elenco telefonico. Se conosci la città, e stai leggendo questo , cercala. Non mostrarle questo messaggio, ma dille che le voglio bene, e che sto tentando di tornare a casa. Per favore.

Accadde tutto quando decisi, circa nel periodo in cui compii venticinque anni, che era tempo per me di non portarmi più lo zaino a lavoro. Mi avrebbe fatto sembrare più maturo, pensai, se non mi fossi più trascinato in giro uno zainetto come uno studente delle superiori. Ovviamente ciò significava che avrei dovuto smettere di leggere nella metro di mattina e nel pomeriggio, visto che non potevo infilare i libri brossurati in tasca. Una valigetta sarebbe stata inappropriata, lavoravo in una fabbrica, e le cartelle mi sono sempre sembrate un po’, non so, effemminate. Sembrano troppo delle borse da donna per i miei gusti.

Avevo un mp3, che mi aiutò a passare il tempo per un po’, ma quando si ruppe – si spegneva da solo ogni volta alla fine di una canzone se non la cambiavo manualmente – rinunciai anche a quello. Per cui tutte le mattine, sedevo nella metro per una mezz’ora che si trascinava all’infinito, con assolutamente nulla da fare a parte osservare i passeggeri. Ero un po’ schivo, quindi non mi piaceva essere beccato a farlo, perciò mi mettevo a guardare furtivamente gli altri. Con molto interesse, scoprii in fretta che non ero l’unica persona nel mondo a sentirsi a disagio in pubblico. La gente tentava di mascherarlo in vari modi, ma imparai a guardare oltre. Li divisi in categorie nella mia mente.

C’erano gli ansiosi, che non riuscivano a stare tranquilli, muovevano costantemente le mani, cambiavano posizione, avvicinavano le gambe al sedile e cose del genere. Erano i soggetti nervosi più distinguibili. Dopo di loro c’erano i finti assonnati, che prendevano posto e chiudevano gli occhi praticamente nello stesso secondo in cui sedevano. La maggior parte di loro non dormiva davvero, comunque. I veri assonnati si muovevano di più, si risvegliavano improvvisamente alle fermate o dopo forti rumori. I finti invece si isolavano da quando si sedevano fino al momento in cui la metro arrivava alla loro fermata. Poi c’erano i fanatici dell’mp3, gente sporadica col laptop, quelli che viaggiavano in gruppo e parlavano a voce troppo alta. I cellulari-dipendenti anche erano parecchio numerosi ed erano completamente incapaci di tacere per più di due minuti.

Proprio quando l’osservazione della gente minacciò di diventare terribilmente noiosa, trovai la mia prima incongruenza. Un uomo di mezza età, bruno, di altezza e peso medi, e vestito in modo anonimo. Stranamente, sembrava fin troppo normale. Non aveva alcun tratto riconoscibile, nessuna stravaganza, come se fosse stato fatto apposta per mischiarsi nella folla. Fu questo che mi portò a notarlo – stavo deliberatamente cercando di vedere come la gente si comportava nella metro, e lui invece non faceva assolutamente niente. Non reagiva neppure, era come vedere qualcuno seduto di fronte alla televisione, mentre guarda un documentario sull’ittiologia. Loro non sono attivi, non sono coinvolti, ma neanche si guardano intorno. Presenti sì, ma non se ne rendono conto.

Si presentava nella metro nei pomeriggi. Passò più di un mese nel quale mi divertivo con l’esperimento dell’osservazione antropologica prima che mi accorgessi di lui, perché non la prendevo alla stessa ora tutti i giorni, e non mi sedevo nello stesso vagone. Lo vidi per la prima volta di Lunedì, credo, e la seconda volta di Giovedì nella stessa settimana. Ovviamente prese lo stesso treno, e si sedette nello stesso vagone – perfino allo stesso posto. Avrà avuto un disturbo ossessivo-compulsivo, pensai allora. Fin quando non attirò talmente tanto la mia attenzione alla prima occhiata, che lo osservai con più bramosia la volta dopo. Era, onestamente, davvero impressionante. Non faceva un bel niente. Si sedette là, privo d’espressione, a testa dritta, non importava cosa accadesse. Una donna con un bambino ululante entrò nel vagone e gli si sedette accanto, e non fece niente. Non si voltò, non fece una smorfia. E il ragazzino era davvero dannatamente fastidioso.

A quel punto la metro rallentò alla mia fermata, scesi e scoprii una sensazione di nausea, e quando mi allontanai in macchina le mie mani tremavano come se avessi una mancanza di nicotina. C’era qualcosa di “sbagliato” in quell’uomo. Era, pensai, una sorta di maniaco. Un sociopatico, forse, uno di quei tipi tranquilli che poi si scopre tengono una dozzina di teste mozzate di donne nel freezer, la prima vittima sua madre.

Mi trovai a bighellonare di proposito dopo il lavoro durante i pomeriggi, fermandomi a dare un’occhiata nei chioschi del centro commerciale vicino alla metropolitana perfino quando non intendevo o avevo bisogno di comprare nulla. Per un paio di settimane, evitai di prendere quella metro, e quando mi ritrovai alla fermata mentre arrivava, feci in modo di stare in un vagone il più possibile distante da quello in cui avrei potuto vederlo.

Poi, una mattina, vidi un’altra persona che fece suonare il campanello d’allarme. Una donna, con un aspetto assolutamente anonimo, tanto da sembrare fuori luogo nella frenesia e nel subbuglio che la circondavano. Il momento in cui la riconobbi, realizzai più tardi, fu quello in cui la mia ossessione iniziò. La mia osservazione delle persone, che iniziò come un passatempo per scacciare la noia, divenne una sorta di religione per me, non potevo entrare in una metro o salire su un bus senza ritrovarmi ad esaminare chiunque, riempiendo una elenco mentale nella mia testa. Vestiti anonimi a tinta unita, niente marca? Controllato. Niente espressione, nessuno sguardo occasionale al finestrino o verso gli altri passeggeri? Controllato. Controlla, controlla, controlla, ne abbiamo un altro. Cominciai a chiamarli gli Estranei.
Non li vedevo tutti i giorni, anche quando iniziai a prendere la metro più di quanto ne avessi bisogno, anche quando iniziai a prendere bus fuori dal mio tragitto, di sera. Ma erano là, abbastanza spesso. Vederne uno mi faceva innervosire, i miei palmi sudavano e la gola mi si seccava. Se ne avete mai parlato, dovreste riconoscere la sensazione. Anche se loro non mi prestavano la minima attenzione, sentivo come se fossi in bella mostra per loro. Li vedevo, chiari come il giorno. Come potevano non farlo loro?

Non mi vedevano, comunque, non in un modo che possa spiegare. E quando, alla fine, la mia curiosità soverchiò la mia paura, decisi di seguirne uno. Scelsi quello che trovai per primo, l’uomo che di pomeriggio sedeva nello stesso posto della metro. Salii e presi posto dietro di lui. Finimmo per raggiungere il capolinea, si alzò e uscì prima di me. Mantenendo una certa distanza tra me e lui, lo pedinai, ma non era andato troppo lontano. Si sedette su una panchina poco distante, privo d’espressione come sempre, e voltai a un angolo, in attesa, cercando di sembrare disinvolto. Dopo pochi minuti, la metro successiva arrivò, e lo vidi entrarvi, e vidi anche mentre si sedeva allo stesso posto. Non ebbi il coraggio di continuare a seguirlo.

Non era andato da nessuna parte! Si era fatto un viaggio in metro fino al capolinea, per poi? Fare il viaggio a ritroso? Che ragione possibile poteva avere lui, e chiunque altro, per fare una cosa simile? La domanda mi tormentò a lungo, anche quando presi un treno per tornare a casa per cercare di riposare un po’. Non potevo ignorarla, non finché avevo modo di cavarne fuori un senso. Perché questo bastardo misterioso, questa persona quasi inumana, si faceva la metro avanti e indietro per andare da nessuna parte? La mente, lessi una volta, si dissocia da certe cose, perché la vista di quelle persone è un affronto. I ragni non piacciono ad un sacco di gente, in particolare quelli grandi. Ci sembrano solo sbagliati dal nostro punto di vista, alieni. Quello era l’effetto che gli Estranei cominciavano ad avere su di me. Offendevano i miei sensi.

Lo seguii di nuovo il giorno seguente, e di nuovo il giorno dopo ancora. Tutti i giorni, per almeno una settimana, noi due facemmo i nostri viaggi silenziosi insieme, sebbene solo io tra noi lo sapessi. Alla fine della settimana, lo seguivo da ore, fino all’ultimo treno che quella notte si fermava vicino ai condomini in cui abitavo. Viaggiammo da un capo all’altro della città, poi a ritroso di nuovo. Non ero più un osservatore di persone, ero una persona che osservava.

Un osservatore di Estranei. Non avevo occhi per nessun altro, sebbene abbia recepito perifericamente qualche occhiata confusa nella mia direzione. Al di là di ciò, avremmo potuto essere le uniche due persone sulla faccia della terra, per quel che me ne importava.

Persi il mio lavoro la settimana dopo. Il mio capo era timido e gentile, ma duro. Non mi stavo concentrando, non avevo la testa. Non ero in nessun livello che fosse definibile produttivo. A dire il vero fu una specie di discorso, penso, ma potei a malapena percepirlo. Tutto ciò a cui pensavo era il mio nuovo lavoro, la mia vigilanza. Cosa avrebbe potuto fare quell’uomo, no, quella cosa, nella metro mentre non c’ero io a tenerla d’occhio? Lasciai il lavoro per l’ultima volta a mezzogiorno. Normalmente avrei iniziato a pedinare il mio soggetto alle cinque e mezza, ma ero sicuro che mi stesse aspettando. Adesso desidero di aver prestato più attenzione a quel giorno. Era una giornata di sole? Era estate, dopotutto, avrei potuto fare una passeggiata in città, forse guardare qualche ragazza carina. Avrei potuto bere un cappuccino freddo e fumare nella sala esterna di una caffetteria e poi tornarmene a casa, lasciare la mia ossessione crescente fuori dai miei pensieri. Avrei potuto trovare un lavoro nuovo e riprendere a leggere sui treni e sui bus.

Invece, aspettai. C’è più di una linea che fa su e giù, per cui sedetti alla stazione per almeno un’ora finché non lo vidi attraverso un finestrino. Entrai nel vagone e notai che per la prima volta la mia pelle non era sudata, le mie mani non tremavano, il mio cuore non batteva forte. Mi sedetti, per la prima volta, proprio di fronte a lui, in piena vista.

Cercai un cambiamento nella sua espressione. Mi avrebbe riconosciuto? Se lo fece, non lo diede minimamente a vedere, e lo stavo fissando davvero intensamente. Dovevamo sembrare proprio una strana accoppiata, seduti uno di fronte all’altro quel pomeriggio, fissandoci a vicenda. Era difficile non lasciare che la mia rabbia crescente mi corrompesse l’espressione, ma con uno sforzo fui in grado di mantenermi privo d’espressione quanto lui. Dentro, urlai contro di lui in pratica. Reagisci, testa di cazzo! Guardami, dannazione. So quello che sei!

Non lo dissi, comunque, e le mie domande senza voce non ebbero risposta al primo viaggio, né al secondo, né al terzo o al decimo. Percorremmo la città nella notte insieme, e ad ogni fermata uscivamo insieme e aspettavamo. Mi sedetti proprio accanto a lui sulla panchina, lo guardai con la coda dell’occhio, e non ottenni ancora nessuna reazione. Ma in due si poteva giocare a quel gioco, tanto quanto da soli.

Finalmente, facemmo il nostro ultimo viaggio insieme. Ce l’avevo in pugno e ne ero consapevole. L’ultima corsa della notte prima che i treni si fermassero. L’avevo sempre lasciato andare, a quel punto, perché la fine della linea è molto lontana da casa mia, e gli autobus smettono l’attività alla stessa ora delle metropolitane. Ma questa volta, lo volevo seguire, per vedere come sarebbe andata quando i treni avrebbero smesso di stare in servizio. Avrei avuto qualche risposta, forse.

La metropolitana scivolò via, e l’ansia dell’attesa crebbe in me. Il vagone si svuotò lentamente, finché non rimanemmo solo noi due silenziosi osservatori nei sotterranei della città. Lottai per tenere a bada un sorriso maniacale, e il treno della metro rallentò a passo d’uomo, poi si fermò. La fine della linea.

L’Estraneo non si mosse, non reagiva a niente. Il vagone si fermò, le porte si aprirono. Potevo sentire in lontananza gli ultimi ritardatari che si facevano strada fuori dalla stazione, da qualche parte dietro di noi, con passi che riecheggiavano nel silenzio. Niente. Il sistema degli altoparlanti emise un rintocco per permettere a chiunque si fosse addomentato di sapere che avevamo raggiunto il capolinea. Ancora nulla. E, infine, sentii di nuovo dei passi. Un conducente o qualcosa genere, faceva capolino con la testa in ogni vettura per assicurarsi che fosse vuota prima di far ripartire il treno, dovunque diavolo vada durante la notte. Non tolsi gli occhi di dosso dalla mia preda silenziosa.

Riuscii a vedere con la coda dell’occhio il conducente, quando finalmente raggiunse il nostro vagone. Diede un’occhiata dentro, i suoi occhi indugiarono su di noi, e gli si dipinse sul volto uno sguardo perplesso. Battè le palpebre un paio di volte e si fermò. Aspettai che dicesse qualcosa, e il tempo si dilatò, ma poi, con una leggera scossa del capo, ci lasciò soli. C’era un vagone davanti al nostro, e lo sentii fermarsi e controllare anche quello, e poi pochi minuti più tardi, il treno riprese a viaggiare. Girammo per un po’ e poi la metropolitana si fermò definitivamente. Potevo vedere all’interno dei finestrini degli altri treni su ambo i nostri lati, e anche attraverso le finestre contrapposte degli altri treni.

Poi mi sorrise. Era proprio una piccola arricciatura del labbro, che sarebbe passata inosservata se non avessi passato le ore passate a studiare minuziosamente il suo viso. “Allora”, disse, con una voce ruvida, da baritono. “Ci siamo”.

Provai a rispondere ma scoprii di non poterlo fare. La gola mi si era completamente irrigidita. Il terrore mi riempiva. Era come se un’intera caverna sotterranea fosse crollata su di me. Tossii e balbettai e finalmente riuscii, con una voce roca, a porre la domanda che mi aveva tenuto insonne la notte, che mi aveva spinto sulla strada della follia, e che mi aveva condotto in quel luogo in quel momento. “Che cosa sei?”

Mi ignorò. Si alzò in piedi e le porte del treno si aprirono. Poi, incredibilmente, si voltò verso di me. “Vieni?” Non attese la mia risposta, ma si diresse sulla banchina. Mi affrettai a raggiungerlo. “Dai, porca puttana!” Gridai. “Parlami. Chi sei? Cosa sei? Perché prendi la metro avanti e indietro per tutto il cazzo di giorno?” Non si guardò indietro, né rallentò il passo. Non potevo vedere la sua faccia, ma ero abbastanza sicuro che non stesse minimamente reagendo, non più di quanto l’avesse fatto nei riguardi di qualsiasi altra cosa. Lo seguii, gridando ancora, ma alla fine rinunciai. Quelle cinque parole erano le uniche che avrei mai ottenuto da lui, pensai.

Camminammo lungo la banchina finché non giungemmo ad un bivio, poi svoltò. Ora eravamo in senso perpendicolare rispetto ai treni attorno a noi. La strada davanti era illuminata dall’alto, ma non riuscivo a vederne la fine. I treni su entrambi i nostri lati sembravano infiniti, per quel che potevo vedere. Troppi treni per una città sola, mi dissi. Non avrebbe avuto la minima importanza a quel punto, immagino, ma probabilmente avrei dovuto prestare più attenzione a quel particolare in quel momento.

Non so bene per quanto camminammo. Avevo un orologio, ma si era rotto. Tirai fuori il cellulare ad un certo punto, ma non riceveva alcun segnale là sotto, e tutto ciò che mi mostrava era la scritta “No Campo”. L’Estraneo si fermava di tanto in tanto, e guardava un vagone della metropolitana per qualche minuto ma poi riprendeva a camminare. Mi ci volle un po’ per capire perché, ma alla fine notai che non erano tutti identici. Le lunghe file di scomparti sembravano simili, ma poi giungemmo ad un modello differente. Poteva essere un po’ più piccolo o più largo, o poteva avere una leggera differenza nel design. Le cabine di pilotaggio, o come diavolo si chiama la parte anteriore, quella in cui siede il conducente, erano impercettibilmente diverse. Non sapevo e non so ancora cosa stesse cercando esattamente, ma alla fine dovette aver trovato quel che cercava, perché girammo di nuovo, e le porte della metropolitana si aprirono quando la mia guida improvvisata si fermò davanti ad esse. Entrammo, e prendemmo posto.

“Hai intenzione di parlare adesso?” Gli chiesi. Nessuna risposta. Singhiozzai con frustrazione e soppesai seriamente i pro e i contro di prenderlo a pugni dritto in faccia per una volta, quando improvvisamente, le luci del vagone si accesero e udii il motore avviarsi. “Ma che cazzo?”

Mi rivolse uno sguardo che era quasi triste. “Non avrai la possibilità di tornare indietro.”

“Di che parli? Tornare dove?” Nessuna risposta, di nuovo. Che stronzo ostruzionista! Il treno arrancò in avanti, spingendosi nella direzione opposta rispetto a quella dalla quale eravamo venuti. Credo. La sfilata infinita di treni mi aveva fatto perdere l’orientamento. Viaggiammo per qualche minuto, e poi cominciò a rallentare finché non raggiungemmo la fermata. Il suo sguardo vuoto diventava più lucido, e per la prima volta ebbi la sensazione che mi stesse guardando, piuttosto che fissare nella direzione in cui sedevo.

“Stai fermo, sta in silenzio. Non attirare la loro attenzione.”

Il treno si fermò, le porte si aprirono, e loro iniziarono ad affluire all’interno. Non so cosa notai in prima istanza – i vestiti strani, le braccia troppo lunghe con mani che quasi toccavano terra, gli occhi torbidi e neri e i volti spigolosi, o le tonalità grigistre o bluastre della loro pelle. I miei occhi catturarono tutti questi elementi, ma per un lunghissimo secondo il mio cervello si rifiutò di elaborarli, e quando finalmente lo fece, fui a malapena capace di soffocare l’urlo che si stava facendo strada nella mia gola. Pensavo che il cuore mi stesse per esplodere. Diavolo, pensai, stavo per esplodere. Ero come la corda di una chitarra strimpellata, tutto in me tremava e pulsava. La mia vista si fece confusa, cosa per la quale fui grato, e vomitai. La mia bocca era completamente atrofica, e mi forzai ad ingoiare, riuscendoci con molta difficoltà. Il mio istinto mi urlava le sue parole – Stai fermo! Stai zitto! Non attirare la loro attenzione!

Il ricordo di quel giorno è annebbiato. Andammo su e giù per la linea, fermi e privi d’espressione, per ore, per giorni forse. Sembra molto più lungo del tragitto che conoscevo, quello con cui seguii l’Estraneo. Le cose orrende attorno a noi sembravano non prestarci alcuna attenzione, sebbene stessimo rigidi. Ero così pietrificato dalla paura che quando finalmente ritornammo all’infinita caverna di treni, da soli, scoppiai in lacrime. Collassai a terra e singhiozzai per un bel po’ di tempo, con l’Estraneo che mi guardava impassibile.

Quando mi ripresi, lo guardai implorante. “Portami a casa.” Gracchiai. “Per favore.”

“Non posso,” mi disse. “Non so quale di questi treni ti riporterebbe indietro. Se anche ce ne fosse uno.” Si alzò e si diresse sulla banchina, e mi rialzai a fatica seguendolo. Si voltò di scatto, bruscamente. “Penso che tu mi abbia seguito abbastanza.”

La rabbia che avevo provato prima per lui, quel panico che si era temporaneamente assopito, si risvegliò in me. “Che cosa?!” gridai, correndo avanti. Lo afferrai per le spalle e, in un impeto di forza incontrollata che non sapevo neanche di possedere, lo sbattei contro un fianco del vagone. “Stronzo figlio di una cagna, che cazzo mi hai fatto?!” lo sbattei di nuovo, e di nuovo. “Riportami indietro!” Sopportò tutto passivamente, e ben presto il guizzo di rabbia in me si dissolse, lasciandomi completamente svuotato. “Per favore”, lo supplicai, “per favore riportami a casa.”

“Non è così che funziona.” Disse. “Se restiamo insieme, è più probabile che saremo notati. Va per la tua strada. Sii impassibile e discreto, e penseranno che sei uno di loro.”

“Come hai potuto farmi questo? Perché?”

Mi rivolse un altro sguardo quasi triste. “Ho dovuto. Lo farai anche tu. Puoi… rimanere bloccato, alle volte.” Mi tolse le mani dalle sue spalle, e fece per andarsene. Caddi in ginocchio, improvvisamente privo di forze, e lo guardai andar via. Al bivio, si voltò verso di me. “Mi dispiace.” E poi sparì.

Rimasi lì, sulle piastrelle fredde, per tanto tempo. Mi rannicchiai e piansi per un po’. Dopo che mi svuotai delle lacrime, riuscii perfino a dormire un po’. Quando mi risvegliai, il treno della metropolitana dal quale ero giunto era sparito – per trasportare altri abomini grigioblu ovunque gli abomini grigioblu fossero diretti. Non potevo sopportare l’idea di tornarci, comunque.

Cercai di trovare la strada dalla quale ero venuto, per cercare un treno che riconoscevo, ma non ero più neppure sicuro in quale direzione sarei dovuto andare. Camminai per un’ora, poi per un’altra. Finalmente, ne trovai uno che sembrava quasi familiare. O ero abbastanza disperato da immaginare che lo fosse. Quando mi avvicinai alle porte, queste si aprirono, e presi posto. Iniziò a muoversi, e pur essendo agnostico da una vita, pregai intensamente. Il treno rallentò fino a fermarsi, le porte si aprirono, e per un secondo pensai di essere salvo. Persone! Esseri umani! Sarei stato l’uomo più devoto del mondo!

Poi notai gli occhi. Più nello specifico, il terzo, grosso occhio al centro delle loro fronti. Beh, allora vaffanculo, pensai.

Erano più facili da sopportare rispetto all’ultimo gruppo, ed ero grato per questo. Il terzo occhio era autonomo rispetto agli altri due però, ed era nauseante. E quando uno di loro sorrideva, o rideva, o parlava con un altro, non potevo far a meno di notare che i loro denti erano affilati, e deformi, gialli e sporchi. Ma se fossi riuscito ad essere abbastanza attento e selettivamente cieco, avrei potuto far finta per un momento di essere a casa. Finché uno di loro entrò con un sandwich in mano, così mi accorsi di avere una fame lancinante e che non avevo mangiato né bevuto in quelli che dovevano essere giorni.

Una volta arrivato al capolinea prossimo, decisi di provare a cercare qualcosa da mangiare o da bere. Non so perché aspettai tanto, ma mi sembrava importante – viaggiare fino all’ultima fermata. Lo raggiunsi, e potevo a malapena trascinarmi fuori. Il mio stomaco non avrebbe accettato un no in risposta però. Mi feci forza, e cercai di mantenere la mia faccia impassibile, e mi feci strada fino alla stazione. E poi divenne tutto confuso.

Cercavo delle scale mobili, o delle scale, o qualcosa del genere, ma tutto ciò che vidi furono buchi nel pavimento, nei muri, e nel soffitto. Enormi buchi di dimensioni irregolari, come se fossi nel bel mezzo di un alveare. Cosa avrei dovuto fare? Lanciarmi dentro uno di quelli? Non aveva alcun senso per me, non finché qualcuno venne fuori da uno di essi. Egli fluttuò su, attraverso il pavimento, e poi galleggiò verso di me. Aggrottò la fronte per un secondo, o almeno credo che quello fosse un cipiglio, ma apparentemente ciò che impediva loro di riconoscermi come un Estraneo si limitava giusto a questo. Questo però, sfortunatamente, non mi permise di levitare, che mi sembrava l’unico modo per uscire dalla stazione-alveare. Imprecando, tornai verso il tunnel.

Ero arrabbiato, perduto, affamato, ed ero stato abbandonato ad un destino che, se non era peggiore dell’inferno, era almeno due volte più stupido e tre volte più nonsense. Non ero del migliore degli umori, il che penso possa giustificare il mio errore. Normalmente, prendo gli angoli alla larga, perché tutti sanno che se giri gli angoli raso il muro in un luogo pubblico, c’è una discreta probabilità di sbattere contro qualcuno che viene dal senso opposto. Come accadde a me. Urtai qualcuno, una donna, e caddi a terra. Senza pensare, reagii come un qualsiasi newyorkese farebbe – malamente. “Gesù santo, stupida stronza! Guarda dove metti i piedi!”

Capii di aver sbagliato, anche prima che se ne accorgesse lei stessa. I suoi occhi erano perplessi e confusi, e quando lei mi notò, si gonfiarono di terrore. Balzò – beh, levitò in fretta – via da me ed emise qualcosa di simile ad un urlo. Un po’ troppo ululante rispetto a ciò che ero abituato a sentire, ma compresi al volo. Pensai, improvvisamente, a quei denti acuminati e grezzi, e quindi mi misi a correre. Il treno della metro non c’era, ma vi era un passaggio pedonale nel tunnel – per gli addetti alle riparazioni, presumo. Da dove vengo io l’avrebbero usato loro, comunque. Lo imboccai a tutta velocità, e continuai a correre finché ogni respirò non divenne doloroso come una pugnalata. Mi fermai, ansimante, e mi guardai indietro. Il tunnel aveva una curva, per cui non riuscivo più a vedere la luce, ma nessuno sembrava avermi seguito. Tornare indietro, comunque, non era un’opzione da prendere in considerazione.

Continuai in avanti nel buio per un bel po’. Alla fine giunsi ad una piccola apertura nel muro, e mi fermai lì per riposare. Fame, disperazione, e una corsa terrificante a gambe levate mi avevano lasciato completamente prosciugato. Probabilmente avrei pianto di nuovo, sembrava l’unica cosa che fossi in grado di fare ultimamente, ma mi sembrò una fatica inutile. Mi sedetti contro il muro, a gambe divaricate, e immaginai di picchiare a morte quell’Estraneo bastardo con un martello. Era una visione rincuorante.

Un ratto stava zampettando lentamente vicino a me, nel buio. Ogni tanto, scuotevo un piede per scacciarlo via, ma dopo un po’ non riuscii più a impaurirlo neanche così. La rabbia, o qualsiasi altra malattia potesse aver avuto, sarebbe stata una benedizione al confronto con l’infinito viaggio attraverso la metropolitana di strani mondi, perso, misero e solo. Quando mi strisciò vicino di nuovo, non lo scacciai. Non finché un treno non passò e le luci del veicolo illuminarono il canale sotterraneo nel quale mi trovato, e la cosa che pensavo fosse un ratto.

Era simile ad un ratto, sì, ma somigliava anche ad un ragno. Se qualcuno avesse incrociato questi due insieme, il risultato dell’abominio sarebbe stato quasi orribile quanto lo era la cosa che si stava strofinando contro la mia gamba. Urlai, mi tirai su dal pavimento e lo calciai via, dritto sul muro opposto. La sua schiena fece uno scricchiolio orrendo e lo vidi contorcersi per l’ultima volta prima che l’ultimo vagone passasse e calasse di nuovo l’oscurità.

E nel buio, mi colse un pensiero terribile. Mi chiesi se era commestibile. Non volevo, e mi strozzai solo ad immaginarmelo, ma avevo fame, e non c’era alcuna garanzia che sarei stato in grado in quel momento di procurarmi del cibo in quel posto, o addirittura mai più. Il rattoragno era la mia unica scelta. Mi trattenni per quanto potei, ma alla fine, la sopravvivenza soverchiò la nausea. Avevo il mio accendino, ma niente con cui accendere un fuoco. Presi della carne dalla sua carcassa e la cossi un po’ tenendola sulla fiamma, ma non fu di grande aiuto. Niente avrebbe potuto esserlo. La sua carne era ripugnante, più disgustosa di qualunque cosa tu possa immaginare. In quel momento ero alla ricerca disperata di cibo, e mangiai molte altre cose discutibili, ma niente ha mai superato il rattoragno in fatto di disgusto.

Col senno di poi, quello fu il momento in cui divenni un Estraneo. Prima, avevo lottato per raggiungere quello stato d’inespressività che gli altri mantenevano. Quella che avevo scambiato per calma era invece intorpidimento. Una roccia tagliente lanciata in un fiume, nel tempo, avrà i bordi arrotondati a causa della forza dell’acqua che la leviga, e ciò che avevo vissuto aveva avuto lo stesso effetto. Squartare e mangiare un mostro nel buio, al di sotto in un mondo alieno, aveva smussato l’ultimo dei miei angoli. Con il tempo lasciai il buio e tornai nel tunnel, ero privo d’espressione e vuoto più di quanto lo sia mai stato colui che mi portò qui.

Quella non era la cosa peggiore, comunque. Il peggio venne dopo, la prima volta che mi bloccai. L’Estraneo l’aveva accennato, ma nello stato in cui versavo, l’avevo percepito a malapena. Una notte, alla fine della corsa, mi chiesero di lasciare il treno. Il mondo era uno di quelli più vicini alla normalità. Le persone erano quasi umane, da come potevo dedurre. Erano arancioni, certo, e gobbe, ma al di là di ciò erano praticamente normali. Dopo l’ultimo mondo dove le persone erano orribilmente sovrappeso, e gli ermafroditi con sei seni e senza naso, i tizi arancioni mi sembravano abbastanza belli in confronto.

Pensai, in un primo momento, che il conducente stesse parlando con qualcun altro ma ero l’unico nel vagone. E per di più, lo avrei compreso. Gli Arancioni certamente non parlavano inglese per tutto il giorno, ma comunque, riuscivo a capire cosa dicevano. Quando mi alzai, iniziai a capire perché. Non potevo stare dritto. Ero gobbo, e da quel che vidi nel mio riflesso sul finestrino mentre uscivo, arancione. Misi insieme i pezzi da là. Bloccato significa che sono intrappolato in questo mondo, per qualche ragione, e costretto a sembrare come loro. Il che sarebbe stato comodo se avessi voluto prendere l’opportunità di lasciare la stazione – possibile per la maggior parte delle volte, ma richiede un sacco di attenzione ed è abbastanza stressante. I mondi alieni sono un po’ rivoltanti, da quel che ho scoperto. Provi a paragonarli al tuo, ma le differenze sono così vaste che ti fa solo stare male.

Lasciai quella stazione, comunque, perché era chiaro che non stavo ritornando alla stazione centrale (quella che avevo chiamato la linea infinita di treni della metropolitana) quella notte. O qualsiasi altra notte, scoprii presto. Considerai, brevemente, di rimanere. Ma questo posto non era casa, e non avrebbe mai potuto esserla. Anche se sembravano come me, la loro cultura era inevitabilmente diversa. Questa era una lezione che avevo imparato. Perfino i mondi dove le persone erano assolutamente indistinguibili da me erano pericolose. Una volta ero in un mondo dove la gente sembrava proprio come me – beh, a dire il vero sembravano brasiliani, ma erano almeno più che simili – e imparai a mie spese che il gesto che per me significa “Ciao” significava qualcosa di gravemente offensivo per loro. Talmente offensivo che ero stato picchiato quasi a morte, mentre una folla guardava con approvazione.

Inoltre, anche se questo posto aveva una cultura alla quale potevo adeguarmi, non volevo rimanere. Volevo una delle due cose: trovare la strada di casa, o trovare l’Estraneo che mi aveva condotto qua e ammazzarlo di botte. Non avrei fatto nient’altro.

Perciò volli andare avanti. Non ero sicuro, comunque, di essere in grado di fare a qualche poveraccio la stessa cosa che era stata fatta a me. Potevo davvero forzare qualcun altro a vagare nell’eterna metropolitana come me? Si scoprì che non dovevo. Dopo un paio di mesi uno di loro mi notò, sì, e iniziò a seguirmi per settimane. Cautamente, feci come se non l’avessi notato, proprio come aveva fatto l’Estraneo. Ma ero combattuto tra il desiderio di metterlo in guardia e il desiderio di portarlo alla fine della corsa, così avrei potuto lasciare questo triste mondo.

L’ultima notte, mi seguì fino alla fine della corsa, proprio come feci io una volta. Non ebbe il coraggio di sedersi di fronte a me, però. Non appena il treno si fermò al capolinea si precipitò fuori. Aspettai, sperando che il conducente non mi vedesse e potessi continuare, ma senza alcun risultato. Lasciai il vagone, e la metropolitana scivolò via senza di me, e la maledissi mentalmente. Mentre voltavo l’angolo che conduceva alle biglietterie, il giovane che mi aveva seguito mi attaccò. Aveva un lurido pugnale ricurvo, e avrebbe dovuto prendermi di sorpresa, ma avevo viaggiato abbastanza attraverso mondi alieni ostili per alcuni anni. I miei riflessi erano acuti.

Combattemmo, furiosamente, prima che riuscissi a togliergli il coltello. Non so come sia potuto finire nel suo collo. Non penso di aver voluto che morisse. Non ero neanche tanto arrabbiato, al ricordo della rabbia che si era accumulata tempo prima. Dopo, mentre lui giaceva al suolo, dissanguato, mi incazzai. Lo presi a calci ripetutamente, urlando. “Stronzo! Dovevi!” calcio, calcio “seguirmi!” calcio. Fuggii dalla scena del crimine, ma non per molto. Ero lì di buon’ora il giorno seguente, per prendere la prima metro del mattino. E quella sera, quando viaggiai fino alla fine della corsa, ero invisibile di nuovo al conducente. Suppongo che si possano sia uccidere che portarli con sé, se si vuole tornare alla stazione centrale.

Ero di nuovo invisibile, ma ero anche di nuovo arancione e gobbo. Rimasi in quel modo finché la volta seguente non mi bloccai. La seconda volta che uccisi qualcuno. Quella fu molto più rapida. Non aspettai che mi seguisse. Una volta che mi riconobbe come un Estraneo, me lo figurai come prossimo, e feci la mia scelta. Non voglio portare nessun altro qui.

E mi domando, comunque, sull’Estraneo che mi aveva condotto qua. Mi chiedo quale fosse il suo aspetto originario, e se sapeva che poteva uccidermi. Mi chiedo anche degli altri che vidi tornando a casa, e i rari sparuti che ho incontrato da quando me ne sono andato. Li uccidono o li prendono? E qualunque sia la loro scelta, la considerano una sorta di gesto pietoso? Non riesco a parlare con loro, a chiedere. Siamo dannati comunque e i dannati dovrebbero soffrire in solitudine.

Ne ho uccisi quindici adesso, e me la sono cavata egregiamente. Ma ho preso una decisione. Ho smesso di uccidere – gli innocenti, almeno. Prima di tornare alla stazione centrale, ho riempito uno zaino con tanta carta quanta potevo mettercene, e ho scritto questa storia. Più e più volte, per lasciarla in più treni della metro che posso. Un paio di migliaia di messaggi in bottiglia, gettati in un mare di rotaie d’acciaio. Questa è una richiesta, ed un avvertimento.
La mia richiesta, per prima, è che tu trovi mia madre e le dica una bugia. E’ una bugia bianca, non preoccuparti. Dì a mia madre che le voglio bene e che sto cercando di tornare a casa. Potrebbe darle qualche speranza, o un minimo di pace. Vorrei che fosse vero. Ma ecco il punto: ho pensato a me stesso come Odisseo, perduto e alla deriva, che cerca di tornare ai lidi familiari. Ma non sono perso in mare. Sono perso in tunnel infiniti – il labirinto. La differenza è importante, perché i labirinti sono progettati, costruiti. Qualcuno o qualcosa ha creato questo posto impossibile. E deve essere ritenuto il responsabile di ciò che mi è accaduto. Mi hanno gettato qui come Teseo, non Odisseo, ma non reciterò più questa parte a lungo. Le strane regole di questo luogo mi hanno cambiato dall’umano che ero in qualcos’altro, poi in altro ancora. Mi hanno reso un mostro, e perciò sarò il Minotauro di questo labirinto. E se posso, lo distruggerò attorno a me e eliminerò coloro che l’hanno costruito.

Il mio avvertimento è che dovresti essere molto cauto, in luoghi pubblici, con gli uomini e le donne inespressivi. Mantieni le distanze. Potrebbero ucciderti, o potrebbero fare di peggio. Se li vedi, corri lontano e veloce. E, ancora più importante, ti avverto, ti prego: non prendere il treno fino al capolinea.MMT2

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