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Mappe – Capitolo IV

 
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Leggi Boxes per capire la storia

Quando venivano progettate città vecchie come quella in cui abitavo io, non si pensava che un giorno avrebbero dovuto ospitare un gran numero di abitanti. Le strade venivano tracciate asfaltando i vecchi sentieri, e veniva fatto principalmente per connettere gli edifici più importanti della città, mentre ai loro lati venivano eretti case e negozi; nello spazio rimanente si sarebbe potuto ampliare, ma, solitamente, ci si limitava a delle ristrutturazioni degli edifici esistenti.

Il quartiere dove passai la mia infanzia, in particolare, doveva essere molto vecchio: se ci si muovesse in linea d’aria si noterebbe subito la confusionaria posizione delle case, le quali sembrano essere state costruire in successione seguendo il percorso d’un serpente. Con ogni probabilità, le prime costruzioni vennero erette intorno al lago, per poi passare gradualmente a zone ancora vergini, fuori dalla zona iniziale, dove vennero costruiti da zero nuovi edifici o ingranditi quelli vecchi, ma queste nuove costruzioni s’interrompevano tutte bruscamente, prima o poi (il quartiere risultava chiuso da tutti i lati, eccetto quello dal quale si poteva entrare e uscire). Questo ampliamento veniva sempre interrotto dall’affluente che alimentava il lago, attraverso quello che io chiamo (e così ho chiamato nei racconti precedenti) “il fossato”. Le prime costruzioni erano situate in un’area enorme, ma vennero in seguito divise e ampliate per rispondere all’aumento della popolazione, costruendo le case sempre più vicine tra loro. Da una visuale aerea del quartiere si potrebbe quasi pensare che un enorme calamaro fosse morto in mezzo al bosco e che quando sono arrivati i primi imprenditori, questi non fecero altro che edificare lungo i suoi tentacoli, lasciando che i vari terreni si vendessero da soli.

Dalla veranda di casa mia si potevano vedere tutte le case intorno al lago, ma ce n’era una che mi ricordo in modo particolare: la casa della signora Maggie. La signora Maggie aveva, se ricordo bene, intorno agli ottant’anni, e ancora oggi la considero una delle persone più cordiali che io abbia mai incontrato; ricordo che aveva i capelli bianchissimi, lunghi e ricci e che spesso aveva indosso delle gonne bianche dai motivi floreali. Quando io e Josh nuotavamo nel lago, le sentivamo spesso rivolgerci la parola dal suo portico, invitandoci ad entrare per far merenda. Diceva che si sentiva sola perché suo marito Tom stava sempre fuori per lavoro, ma io e Josh declinavamo l’invito perché, nonostante fosse molto gentile, circolavano delle strane voci sul suo conto.

Prima o poi, mentre nuotavamo nel lago, le avremmo sentito dire: “Chris, John, non fate tardi!” e così ancora mentre ci incamminavamo verso le nostre abitazioni.

Come molti altri vecchi proprietari, la signora Maggie possedeva un sistema d’irrigazione basato su un timer, il quale, dopo anni d’utilizzo, doveva essersi rotto, perché gli spruzzatori funzionavano in orari diversi durante il giorno e qualche volta anche di notte, e così per tutto l’anno. Dato che non fece mai così freddo perché nevicasse abbondantemente, spesso, in inverno, uscivo per vedere il giardino della signora Maggie, il quale, in quel periodo, si trasformava in un vero e proprio paradiso di ghiaccio a causa dell’acqua proveniente dagli spruzzatori. Tutti gli altri giardini diventavano spenti e sterili a causa del freddo invernale, ma proprio lì, nel mezzo dei tristi segni lasciati dalla stagione invernale, c’era un’oasi di stalattiti di ghiaccio pendenti da ogni ramo, albero e cespuglio. Alle prime luci dell’alba, le stalattiti trasformavano il sole in un bellissimo arcobaleno, tanto luminoso da accecare la vista dopo pochi secondi. Adoravo quello spettacolo e, spesso, io e Josh uscivamo per passeggiare su quel manto di neve e combattere con le stalattiti a mo’ di spade.

Ricordo che una volta chiesi a mia madre perché non volesse lasciarci andare dalla signora Maggie. Esitò, come se cercasse le parole, prima di dire:

“Vedi, amore, la signora Maggie è molto malata e qualche volta, quando non si sente molto bene, non riesce a pensare come si deve. Ecco perché a volte chiama te e Josh con altri nomi; lei non vuole darlo a vedere, ma spesso non riesce a ricordarseli. Vive in quella casa tutta sola, quindi non ci sono problemi se le parlate quando tu e Josh nuotate nel lago, ma quando vi invita dentro casa sua dite sempre di ‘no’. Però siate educati, non dovete farla stare male.”

“Ma lei non sarà sola per sempre, no? Perché tornerà suo marito, vero? Quanto tempo deve stare lontano per lavoro? È come se non stesse mai a casa”.

Mia madre esitò ancora. Finalmente rispose:

“Amore… Tom non tornerà più a casa. Adesso lui è in Cielo. Morì tanti, tanti anni fa, ma la signora Maggie non riesce a ricordarlo. Tom non verrà mai a casa. Se qualcuno entrasse in casa sua, lei penserebbe che sia suo marito. Ma lui non c’è più, tesoro”.

All’epoca non riuscivo a capire, avevo solo cinque o sei anni, ma mi dispiaceva molto per la mia vicina.

Adesso so che Maggie aveva l’Alzheimer. Lei e suo marito avevano due figli, Chris e John; i quali si preoccupavano di assicurare acqua ed elettricità alla madre, ma non erano mai andati a trovarla. Non so se a causa di qualcosa accaduto in famiglia, per la malattia o semplicemente perché abitavano molto lontano, ma non sono mai venuti da quelle parti. Non so come siano fatti, ma ai tempi la signora Maggie doveva aver trovato una certa somiglianza tra me e Josh e i suoi due figli. O forse vedeva quel che la sua mente desiderava vedere, ignorando qualsiasi cosa vedessero i suoi occhi. Capisco solo adesso quanto sola si potesse sentire.

L’estate successiva, prima degli eventi del progetto “Palloncini”, io e Josh eravamo andati a esplorare il boschetto vicino casa mia, dove scorreva l’affluente del lago; quel bosco sfiorava le nostre case e pensavamo che sarebbe staro forte se il lago presso casa mia e il fiume presso casa sua fossero stati collegati, così decidemmo di scoprirlo.

Pensammo di creare delle mappe.

Avevamo in mente di disegnarne due: una sarebbe partita dalla casa di Josh, o meglio dal fiume presso casa sua, mentre l’altra sarebbe cominciata a partire dal lago vicino casa mia. All’inizio ne volevamo fare solamente una, ma realizzammo quanto fosse difficile, dal momento che io esagerai le proporzioni della mia area, rendendoci impossibile continuare. Tenemmo entrambe le mappe, e ci mettemmo d’accordo per continuarle ogni volta che l’uno avesse dormito a casa dell’altro.

Durante le prime settimane venne davvero bene. Camminavamo per il bosco e lungo il fiume, fermandoci ogni manciata di minuti per disegnare le zone appena esplorate: le mappe sembravano congiungersi ogni giorno di più. Non ci portavamo dietro niente, a parte una bussola, ma decidemmo comunque di proseguire. Probabilmente siamo stati i peggiori cartografi del mondo. A volte, comunque, fummo costretti a tornare indietro, perché gli alberi, nel punto in cui il fiume si congiungeva al lago, diventavano troppo fitti impossibilitandoci a proseguire. Perdemmo quasi del tutto interesse nelle mappe, riducendo il numero di esplorazioni, quando cominciammo a vendere granite.

Dopo averle mostrato quelle strane foto, mia madre mi sequestrò la macchinetta per la granita e cominciò a comportarsi in modo severo, imponendomi certe nuove regole: ad esempio, dovevo chiederle sempre il permesso di uscire, anche quando andavo a trovare Josh. Non potendo continuare a vendere granite come prima, ricominciammo ad interessarci alle mappe, ma non ci era più possibile passare ore e ore nel bosco come avevamo sempre fatto. Inoltre, in alcuni punti gli alberi ci impedivano il passaggio, permettendoci di superarli solo se avessimo nuotato. Finché non ci venne in mente un’idea.

Potevamo costruire una zattera.

Vicino al canale, ovvero nel “fossato”, c’era una specie di discarica, in cui si trovava del materiale da costruzione scartato durante vari lavori, tempo addietro. All’inizio ci eravamo messi in testa di costruire una nave, con tanto di ancora e timone, ma presto accantonammo l’idea in favore di qualcosa di più pratico. Avevamo trovato dei grandi pezzi di polistirolo che avrebbero potuto fungere da galleggiante, così li conservammo in un punto del bosco che conoscevamo: pensavamo di legarli insieme con delle corde, così da poterci stare sopra.

Decidemmo di testare la nostra imbarcazione vicino a dove abitava la signora Maggie, avvertendola di stare indietro, quando ci venne intimato di tornare indietro. Ma niente poteva fermarci, ormai.

Fino ad allora pensammo alla zattera come a un gioco, e ci stupimmo nel constatare che essa funzionasse veramente. Ci arrangiammo con dei semplici bastoni, per i remi, così spingemmo la zattera e vi salimmo: i remi sarebbero serviti solo finché l’acqua non sarebbe diventata profonda, a quel punto avremmo utilizzato le braccia. Mi ricordo di aver pensato che da lontano avrebbero potuto scambiarci per un grosso uomo che si faceva una nuotata nel lago.

Ci costò vari tentativi, ma infine riuscimmo a superare il punto più lontano segnato sulla mappa, ovvero quello dove gli alberi impedivano il cammino a piedi. In quel momento ci venne in mente di segnare quel punto con un bastone, così scendemmo e, appena ne trovammo uno, segnammo sulla mappa i progressi appena raggiunti. Questo significava che avremmo lasciato la zattera in punti sempre più lontani e, pertanto, il tragitto da casa avrebbe richiesto più tempo. Navigammo per un po’ per poi attraccare: la volta successiva avremmo dovuto correre, altrimenti avremmo perso più tempo del solito per raggiungere la nostra imbarcazione.

Non ci fermammo neanche quando cominciammo la prima elementare. Quell’anno Josh venne assegnato a un gruppo differente dal mio, così, visto che ci incontravamo raramente a scuola, i nostri genitori ci accompagnavano l’uno a casa dell’altro ogni fine settimana. In quel periodo, fortunatamente, il padre di Josh sarebbe dovuto rimanere al lavoro anche nel week-end, mentre sua madre sarebbe rimasta a casa: Josh, quindi, poteva restare a dormire a casa mia tutte le settimane.

Avremmo potuto fare molti progressi, dato il tempo a disposizione, ma, sfortunatamente, non riuscimmo a trovare nuovi luoghi dove attraccare la zattera, così ci fu un punto morto. Il bosco diventava sempre più fitto, mentre l’acqua aveva eroso il terreno tanto da creare un dislivello di circa un metro: al di sopra di esso c’era solo un fitto tetto di rami e foglie. Dovevamo tornare indietro ogni volta e attraccare la zattera nello stesso punto dove attraccammo l’ultima volta. Come se non bastasse, ormai si stava avvicinando l’inverno, quindi non sapevamo spiegare perché uscissimo di casa portandoci i costumi da bagno. Non sapevamo cosa fare: anche quando riuscivamo a guadagnare un po’ di terreno, dovevamo comunque tornare a casa prima che facesse buio.

Un sabato, verso le 7 del pomeriggio, io e Josh stavamo giocando a casa mia, quando una collega di mia madre bussò alla porta. Lei si chiamava Samantha, me la ricordo bene perché qualche anno dopo, andando a trovare mia madre al lavoro, le avrei chiesto di sposarmi. Mia madre l’aveva mandata per avvisarci che doveva risolvere un problema e che non sarebbe tornata prima di due ore. La macchina era dal meccanico, quindi si sarebbe fatta accompagnare a casa da Samantha. Ci disse di stare dentro casa e non aprire la porta a nessuno, e iniziò a dirci che ci avrebbe chiamato ogni ora, prima di ricordarsi che ci avevano staccato il telefono (aveva mandato Samantha proprio per questo motivo). Mentre chiudeva la porta mi guardò e mi disse: “Non combinate niente”.

Era la nostra occasione.

Restammo a guardare la macchina allontanarsi e quando finalmente la perdemmo di vista corremmo verso la mia stanza; io presi il mio zaino e Josh la mappa.

“Ce l’hai, una torcia?”, chiese Josh.

“No, ma torneremo prima che faccia buio”.

“Pensavo ne avremmo avuto bisogno”.

“Mia mamma ne ha una, ma non so dove la tiene… Aspetta!”

Corsi verso l’armadio e tirai giù una scatola che stava in alto

“C’è una torcia lì dentro?”, chiese Josh.

“Non proprio.”

Aprii la scatola, mostrandogli tre candele romane che trovai in un mucchio accatastato da mia madre per il 4 luglio dell’estate passata; insieme a quelle, presi anche un accendino che mi ero fatto dare da mia madre qualche mese prima: questo ci avrebbe assicurato un po’ di luce in caso ne avessimo avuto bisogno. Non ci era ancora passata per la testa l’idea che avremmo potuto rimanere al buio in quel bosco spaventoso: quindi non fu la paura a spingerci a cercare qualche fonte di luce, ma la semplice necessità. Mettemmo tutto dentro uno zaino, uscimmo dalla porta sul retro e la chiudemmo, assicurandoci che Boxes fosse dentro, così non sarebbe potuto uscire. Avevamo un’ora e quindici minuti.

Corremmo verso il bosco nel minor tempo possibile, e giungemmo alla zattera in quindici minuti. Avevamo i nostri costumi da bagno sotto i vestiti, così ci togliemmo le magliette e i pantaloncini, lasciandoli a quattro passi dall’acqua. Spingemmo la zattera in acqua, stringemmo i nostri remi e salpammo.

Cercammo di giungere velocemente all’ultimo punto segnato sulla mappa, dato che non avevamo tempo da perdere in quella discarica. Sapevamo che muovendoci sulla zattera ci saremmo spostati più lentamente che a piedi, e che presto il percorso sarebbe stato interrotto dai rami degli alberi, costringendoci a cambiare direzione e tornare indietro.

Questo significa che, se ne avessimo trovati, avremmo dovuto girare la zattera e tornare indietro.

Quando oltrepassammo il confine disegnato sulle mappe, l’acqua si fece più profonda e non dovemmo più utilizzare i nostri remi, quindi ci allungammo sulla zattera e remammo con le mani. Poiché si stava facendo buio e la vegetazione cominciava a confondersi nell’oscurità, io e Josh iniziammo ad essere leggermente nervosi; remammo più velocemente nell’intento di guadagnare tempo, mentre il veloce movimento delle nostre braccia rompeva la calma del luogo. Mentre eravamo intenti a remare, potevamo sentire distintamente il rumore di foglie e rami calpestati tra gli alberi alla nostra destra; notando questi rumori, cominciammo a rallentare, chiedendoci se qualcosa ci stesse seguendo. Non sapevamo che razza di animale potesse essere, quello a poca distanza da noi, e non avevamo nessuna voglia di scoprirlo.

Mentre Josh spiegava la mappa e io gli facevo luce con l’accendino, capimmo che quei suoni non li avevamo immaginati. In rapida successione potevamo sentire:

crunch

snap

crunch

Sembrava muoversi verso di noi, sbattendo contro gli alberi in un punto non segnato sulla mappa. Era troppo buio per poter vedere: avevamo calcolato male quanto tempo avremmo avuto il sole dalla nostra parte.

Nervoso, dissi ad alta voce:

“C’è qualcuno?”

Respiravamo sempre più silenziosamente, lì, fermi in mezzo all’acqua. Il silenzio venne interrotto da un altro rumore.

“C’è qualcuno?”, gridò Josh.

“Allora?”

“Ciao, signor Mostro degli alberi, so che stai strisciando qui intorno, ma potresti almeno rispondermi. Ci sei?”

Compresi quanto fosse stupido: qualsiasi animale fosse, non avrebbe risposto.

Josh imitò il mio “Ciaooooo” alzando il tono di voce fino a simulare un falsetto.

“Ciaooooo”, risposi abbassando il tono più che potevo.

“Fatti vedere, amico!”

“Ci-a-o. Bi Bu”

“CiaaaaaAAAAAOOOOOooooo”

Continuammo a giocare, finché non decidemmo di tornare indietro presso la zattera e sentimmo una voce dietro di noi.

“Ciao”

Fu appena sussurrato, come provenisse da due polmoni ormai sgonfi, ma non sembrava la voce di qualcuno che stava male. Il suono proveniva da un punto della mappa che stava dietro di noi, dato che avevamo appena ruotato la zattera. Io mi misi lentamente sulla zattera e puntai la candela romana nella direzione da cui proveniva il sussurro. Volevo scoprire cosa fosse.

“Che stai facendo?”, mormorò Josh.

Ma ormai l’avevo accesa. La miccia bruciò completamente e un getto di luce verde volò in cielo, dissolvendosi tra le stelle. Non avevo mai sparato uno di quei cosi da solo. Allora puntai dritto davanti a me: riuscii a intravedere un po’ l’ambiente, prima che il globo di luce rossa si spegnesse in mezzo alle foglie di un albero, ma ancora non vedevo nessuno.

“Andiamocene e basta, dai!”, mi disse Josh, mentre si affaticava a remare da solo, cercando di tornare a casa.

“Un altro ancora”

Puntando direttamente agli alberi di fronte a me, utilizzai l’ultimo fuoco d’artificio. Volò quasi orizzontalmente prima di schiantarsi contro un albero, esplodendo toccandone il tronco.

Ancora niente.

Lanciai un altra candela romana in acqua e la guardai bruciare per un po’. Quando cominciammo a remare verso casa, sentimmo un rumore metallico provenire dagli alberi. Il rumore dei rami spezzati e delle foglie che cadevano a terra coprivano quello dei nostri remi nell’acqua.

Stava correndo.

Atterriti com’eravamo, finimmo per dare un colpo troppo violento all’acqua, così io sentii una delle corde sotto il mio petto allentarsi.

“Josh, attento!”.

Ma ormai era troppo tardi. La nostra zattera si stava rompendo. Dopo non molto era già affondata. Eravamo entrambi aggrappati a un differente pezzo di polistirolo, ma questi non erano abbastanza grandi per tenerci a galla, così le nostre gambe finirono nell’acqua gelida.

“Attento! Josh!” Gridai, puntando il dito verso di lui.

Josh si voltò, ma faceva troppo freddo perché potessimo muoverci in fretta, così guardammo impotenti la mappa mentre volava via.

“Ho fffr-fffreddo, c-cavolo”, si lamentò Josh, “Uss-ssciamo d-dall’acqua”

Ci avvicinammo alla riva, ma ogni volta che provavamo a tirarci su sentivamo quel rumore metallico avvicinarsi minaccioso a noi; avevamo troppo freddo per provare qualcos’altro.

Continuammo a muovere le gambe fino a ritrovarci nel luogo dove trovammo i pezzi per la zattera. Tentammo di portare su i pezzi della zattera, ma quello di Josh scivolò via in direzione del lago. Così ci togliemmo i costumi da bagno e ci rimettemmo i vestiti. Mente mi mettevo le mutande, notai qualcosa di strano. Mi voltai verso Josh.

“Dov’è finita la mia maglietta?”

Josh allora mi suggerì: “Forse è caduta in acqua, ormai sarà nel lago”.

Dissi a Josh che saremmo tornati a casa mia e che se mia madre fosse già tornata le avremmo detto di aver giocato a nascondino. Prima, però, dovevo cercare di recuperare la mia maglietta.

Corsi dietro ogni casa e cercai ovunque nell’acqua. Pensavo che se fossi stato fortunato avrei trovato anche la mappa. Stavo facendo tutto molto in fretta perché dovevo tornare a casa, e fu quando me ne resi conto che la mia ricerca venne interrotta da una voce proveniente dalle mie spalle.

“Ciao”

Mi voltai di scatto. Era la signora Maggie. Non l’avevo mai vista di notte, prima, e in quella fioca luce sembrava davvero debole. Il calore che solitamente l’avvolgeva sembrava essere stato spento dal gelido vento di quella sera. Non ricordavo di averla mai vista con un’espressione seria: il suo viso mi appariva molto strano.

“Salve, signora Maggie”

“Ah, ciao Chris!”, il sorriso era ritornato sul suo volto, anche se lo stesso non si poteva dire della sua memoria. “Non ti avevo visto, con questo buio”

Scherzando, le chiesi se mi avrebbe invitato dentro per fare uno spuntino, ma mi venne risposto che magari sarei potuto venire un’altra volta. Io avrei dovuto cercare la mappa e la maglietta, ma sembrava essere contenta, così non mi dispiacque rimanere. Mi disse qualcos’altro, ma non le prestai molta attenzione. Le augurai una buonanotte e corsi verso casa mia. Dietro me potevo sentirla camminare lungo il prato innevato, ma non mi voltai per controllare. Dovevo tornare subito a casa.

Entrai entro una manciata di minuti prima che tornasse mia madre, ma a quel punto io e Josh ci eravamo già cambiati e messi a letto. Ci era andata bene, ma avevamo perso la mappa.

“Non sei riuscito a trovarla?”

“No, ma ho incontrato la signora Maggie. Mi ha chiamato Chris un’altra volta. Sei fortunato a non averla mai incontrata di notte.”

Ridemmo entrambi, poi Josh mi chiese se mi aveva invitato dentro per uno spuntino, scherzando sul fatto che la roba che ci voleva far mangiare doveva essere una vera schifezza. Lo lasciai sorpreso, e, se ci penso, lo ero anch’io, quando gli dissi che non mi aveva invitato affatto; anzi, le avevo chiesto io stesso se potevo entrare e rimandò a un’altra volta.

Mentre Josh parlava della signora Maggie, mi ricordai che l’accendino doveva essere ancora nella mia tasca e che sarebbe stata una vera seccatura se mia madre l’avesse trovato. Raccolsi i pantaloncini da terra e tastai le tasche: sentivo qualcosa, ma non sembrava un accendino. Dalla tasca posteriore tirai fuori un foglio, un foglio piegato: il mio cuore si fermò. “La mappa?”, dissi. “Ma l’ho vista mentre veniva portata via dalla corrente”. Quando spiegai il foglio cercando, il mio stomaco si chiuse mentre cercavo di rendermi conto di quel che vedevo. Dentro un ovale disegnato al centro del foglio c’erano due omini stilizzati che si tenevano per mano. Uno dei due era più grande dell’altro, ma nessuno dei due aveva una faccia. Il foglio era stato strappato, così mancava una parte, e lì, sull’angolo superiore destro, erano stati scritti dei numeri. Era un 15, o forse un 16. Leggermente scosso, passai il foglio a Josh, chiedendogli se me l’avesse messo lui in tasca: lui mi schernì, chiedendomi perché fossi così agitato. Gli indicai il disegno e la scritta.

Erano le mie iniziali.

Questo mi inquietò molto, così raccontai a Josh il resto della conversazione avuta con la signora Maggie. Attribuii sempre il cambiamento di quella al fatto che fosse malata, prima che rivisitassi gli avvenimenti di quegli anni. Ripensandoci, mi sento ancora triste per la signora Maggie, e questa tristezza diventa quasi disperazione quando ricordo le parole “magari un’altra volta”. C’era un significato nascosto, in quella frase. Lo capii qualche settimana dopo, quando degli uomini con delle strane tute arancioni portarono quelli che sembravano sacchi dell’immondizia fuori dalla casa, e perché l’intero quartiere fosse diventato tanto silenzioso, quel giorno. Quando vendemmo la casa e ci trasferimmo, non capivo ancora. Ma ora mi è chiaro. Ho capito perché quelle ultime parole erano così importanti, anche se né io né lei ce ne accorgemmo in quel momento.

Maggie mi aveva detto che quella notte Tom sarebbe tornato, ma solo ora capisco chi entrò dentro casa sua. Quel giorno non la trasportarono su una barella.

Quei sacchi non contenevano l’immondizia.

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