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La Casa che la Morte Dimenticò

 
La maggior parte delle storie, tranne quelle nella categoria "Scritte da me" o "Scritte da voi" sono prese dal sito Creepypasta Italia Wiki

Melinda odiava guidare di notte. Faceva del suo meglio per evitarlo. Si spostava per tratte brevi verso un negozio se si accorgeva di essere a corto di assorbenti o se non aveva nulla per cena dopo essere tornata a casa, quel genere di cose che capitano ogni tanto. Ma lei faceva del suo meglio per non uscire quand’era buio a meno che qualcuno non venisse a prenderla.

Così, naturalmente, si trovò ad affrontare il viaggio più lungo della sua vita quella notte senza luna, punteggiata da poche stelle, spirali di nuvole che volteggiavano sopra di lei e ettari di foresta su entrambi i lati. Come molte delle cose sgradevoli della sua vita, questa era dovuta a suo padre. Non parlava né vedeva più quel bastardo da quindici anni, ma subito dopo essersi addormentata quella notte… No, si sbagliava. In quel momento doveva essere già domani. All’improvviso, il suo telefono squillò, e la sua voce era all’altro capo del filo.

“Ho bisogno di te, Mellie. Per favore, vieni ora.” Disse solo questo, e poi cadde la linea.

Il vecchio doveva essere sbronzo probabilmente, ma non l’aveva mai chiamata prima Mellie, non dai tempi in cui era una bambina e cercava ancora di convincere sua madre a riprenderselo. Le sembrò come se fosse stata addormentata per un lungo tempo, svegliarsi e sentire di nuovo la sua voce dopo tutti quegli anni. Sembrava che stesse piangendo. La sua voce era proprio come la ricordava dall’ultima volta che l’aveva sentita.

Come in un sogno, si era alzata, vestita, ed era entrata in macchina. Era già fuori città e a metà strada dalla vecchia abitazione di suo padre prima di rendersi conto che non aveva modo di sapere se viveva ancora là. Riceveva notizie da sua madre di tanto in tanto nel corso degli anni sui suoi spostamenti. L’ultima volta che sentì sua madre parlarle di lui fu sette anni fa. Era mai stato in un posto solo così a lungo? Non che lei ricordasse. Aveva sette anni quando sua madre finalmente ne ebbe abbastanza e lo mise alla porta. Prima di ciò, ogni tanto facevano un trasloco. La casa in cui abitavano fu la loro sistemazione più duratura; sedici mesi esatti. Dopodiché divennero due anni, e poi la casa seguente divenne l’appartamento che lasciò quando si trasferì per vivere da sola. In tutto quel tempo, lo sentì sporadicamente se andava bene, e finalmente decise che sarebbe stato più semplice dimenticarsi di lui.

Fino a quella notte.

Dopo due ore di guida scoprì di aver ragione di dubitare che il padre fosse ancora nello stesso posto. Il suo ultimo indirizzo conosciuto era un appartamento malridotto in una zona a basso reddito della città in cui era cresciuta. Era al numero 24 o al 42? Forse era 14. Sicuramente aveva un 4 in mezzo. Non aveva importanza. Il suo nome non era su nessuno dei campanelli.

Bastardo! Suo padre ubriaco l’aveva chiamata a notte fonda, non facendo nient’altro che chiederle di raggiungerlo per una ragione che non era neanche abbastanza importante da esser rivelata per telefono, e poi si aspettava di punto in bianco che lei sapesse dove si trovava in quel momento. In un impeto di rabbia, tornò indietro marciando verso la sua auto, sbattè la portiera e ripartì per dirigersi da dove era venuta. Era così arrabbiata che non fece attenzione a dove stava andando e mancò una traversa in cui doveva girare.

L’altra cosa che notò, fu che si trovò su un tratto di strada solitaria. Le auto erano rade, ma la rilassava il fatto che ne passasse una ogni mezz’ora circa. L’orologio sul cruscotto segnava le 2:27 del mattino. Guidava da più di cinque ore da quando era uscita di casa. Di notte.

Ogni cinque minuti controllava il suo cellulare. Da quando capì di essersi persa, iniziò a controllarlo e scoprì di non avere copertura di rete. Si fermò anche ad una stazione di servizio (chiusa, ovviamente), sicura che ci sarebbe stato campo là attorno da qualche parte, ma niente.

Fa il punto della tua vita, Mellie, pensò. Hai oltrepassato i trent’anni, odi il tuo lavoro, tu e tua madre non andate per niente d’accordo, non parli e non vedi tuo padre da poco meno di metà della tua vita, non hai tempo per gli amici o per le relazioni grazie al lavoro sopracitato, e ora eccoti qui, intrappolata in una strada che non hai mai visto prima, di notte, e non puoi nemmeno dare un’occhiata su Google Maps. Che donna intelligente sei.

Considerò rapidamente di fermarsi e di far segno alla prossima macchina di passaggio. Poi capì subito l’inutilità del piano. Nessun altro su questa strada avrebbe avuto campo. Quindi non c’era nulla da fare. Avrebbe dovuto guidare finché non si fosse imbattuta in una casa. Si sarebbe sentita in imbarazzo a svegliare qualcuno, ma non c’era scelta. Doveva ritrovare la strada per tornare sulla via principale.

Ma fino a quel momento, l’unica cosa che riusciva a vedere su entrambi i lati erano solo alberi. Chilometri e chilometri di alberi. Nessuna luce filtrava attraverso le fronde. Nessuno segno che indicasse il passaggio di qualcuno, tranne la strada e la gente che ovviamente la usava.

Non c’erano neppure altri segnali stradali oltre gli indicatori dei chilometri. Era davvero nel mezzo del nulla? Si trovava a pensare proprio questo quando i suoi fari illuminarono qualcosa sulla strada; un cartello squadrato di legno – ovviamente non di quelli distribuiti dal governo. Non era un cartello per la benzina/cibo/alloggio, o un segnale chilometrico, o un cartello che indicava una distanza da un punto. Sembrava un cartello pubblicitario che indicava un’attività là intorno. Rallentò per leggerlo.

Roadhouse di Nonna Royce! Venite a soggiornare per una notte da Nonna! Si prenderà cura di voi! Stanze! Vitto! Prezzi bassi! Alla prossima uscita!
Il suo cuore accelerò i battiti. Non era affatto interessata a fermarsi da Nonna Royce, ma ogni attività ha sicuramente una linea fissa. Al massimo, avrebbe potuto ricevere una mappa, o le avrebbero potuto indicare la strada giusta. Decise di fermarsi là.

Stava quasi per mancare lo svincolo. La Roadhouse di Nonna Royce era infossata alla fine di una lunga, sporca strada privata e sterrata, appartata in mezzo agli alberi. Aveva appena finito di percorrere la stradina sporca, prima di accorgersi che stava là. Continuò fino a fermarsi e poi svoltò dentro.

La casetta si trovava davanti a lei. Era a due piani e sembrava avere all’incirca otto o dieci stanze. Grande per essere una casa ma piccola per qualsiasi abitazione che potesse permettersi vitto e alloggio. Si avvicinò e controllò se vi era un segnale di un posto libero; niente. Non perché l’insegna non era illuminata, non c’era proprio nessuna insegna. La luce del portico era accesa e la facciata dell’edificio era illuminata da quella luce e dai suoi fari. Nessun cartello di alcun genere.

Quasi si chiese se non avesse sbagliato posto, ma era certa di non aver visto alcun’altra uscita tra questa casa e il cartello che la indicava. Si fermò nel vialetto e tirò fuori il cellulare di nuovo. Ancora niente campo. Fece una piccola ricerca di eventuali segnali wireless disponibili. Senza nessuna sorpresa, non ve ne era alcuno. Neanche uno protetto.

Non c’è nessun altro a parte me qua, pensò.

A quel punto, non si sarebbe stupita di trovare anche la casa vuota. Ma la luce era accesa ed era una road house. Ci sarà stato qualcuno a lavorare alla reception.

Scese dall’auto e si diresse verso il portico. Mentre si voltò per controllare che le luci lampeggiassero per essere sicura di aver chiuso le portiere dell’auto, pensò di vedere un movimento tra gli alberi. Qualcosa dalla forma umana. Si fermò e guardò di nuovo. Niente. Pensò di averlo immaginato.

Sulla porta, esitò. Se fosse stata una roadhouse non avrebbe dovuto aver problemi ad entrare. Ma se si fosse sbagliata? Se avesse aperto la porta e fosse entrata, si sarebbe potuta trovare arrestata là in Culonia, Nientelandia. Cautamente, provò a girare la maniglia. Funzionava. Spinse delicatamente la porta. Si aprì. Il sollievo la pervase quando vide che si trovava in un atrio piccolo, ma decorato con gusto, che era stato evidentemente riqualificato come hall. Una scrivania pittoresca, con un modesto libro degli ospiti lasciato sull’angolo destro insieme ad alcune riviste, e alcune sedie. Scorse brevemente i titoli — Mademoiselle, Blue Book, The New Country Life, Arts & Architecture — prima di rivolgere l’attenzione al piccolo scranno.

Non c’era un computer. Era una cosa piacevole. Era come se la casa fosse di un’epoca passata. Forse la vecchia Nonna Royce non amava particolarmente la tecnologia. C’era, tuttavia, un campanello, proprio come ci si sarebbe aspettati di trovarne uno nel 1929. Non era neanche il tipo di campanello argentato che devi pigiare per farlo suonare; era una piccola campana di porcellana. Questo posto iniziava sembrarle graziosissimo.

Per favore lasciare un recapito telefonico, e si è pregati di utilizzare la linea della pensione, non si cambiano pezzi da 50. Prese la campanella e la scosse.

Per un po’, non accadde nulla. Poi vide una luce accendersi nella stanza adiacente e l’ombra di una donna anziana proiettata sul muro. L’ombra si mosse verso di lei e nel giro di pochi secondi, vide la sua proprietaria: Nonna Royce, che poteva benissimo somigliare a tutte le nonne di ogni fiaba.

“Beh, oh cielo,” disse. “Buongiorno tesoro. Perdona il ritardo ma è passato un po’ di tempo da quando abbiamo ricevuto ospiti a quest’ora. Posso sapere il tuo nome, cara?”

Nonna Royce era bassina, con i capelli grigi legati in una crocchia ordinata dietro la testa, un vestito che aveva una foggia da anziana degli anni venti, e un maglione rosa sbiadito. Melinda pensò che somigliava proprio a come avrebbe voluto che apparisse sua nonna, ma sua nonna materna morì quando era giovane, e non aveva mai visto la madre di suo padre. Quasi le faceva male rifiutare l’ospitalità della piccola e dolce donna, ma comunque, doveva tornare a casa.

“Veramente, sono dispiaciuta”, iniziò. “Ma il fatto è che mi sono persa. Non sono neanche sicura di dove mi trovo…” “Oh, povera ragazza”, disse Nonna Royce. “Siediti che ti preparo un té, o quello che vuoi. Devi aver freddo.” “Davvero, grazie, ma sto bene,” disse Melinda con gentilezza. “Ho solo bisogno di usare il telefono, se posso, o se potesse darmi una mappa, anche questo sarebbe d’aiuto. Vivo ad un paio d’ore da qui…”

Si interruppe, non sapendo se fosse vero. Poteva benissimo aver viaggiato per quelle cinque ore in direzione completamente sbagliata.

“Oh, cara,” disse la piccola donna mestamente. “Mi dispiace, tesoro, ma le linee telefoniche sono interrotte. Per quanto riguarda la mappa, beh… Una volta ne avevo una, e se la cerco dovrei averla ancora, ma adesso sarà datata. L’autostrada è stata spostata da allora, per quel che ne so.”

Il cuore di Melinda sprofondò. Come poteva avere una fortuna ancora più avversa? Nessun telefono, cellulare o mappa. Cosa poteva fare? Doveva tornare a casa. Era attesa al lavoro per le 8 del giorno seguente. E perché le linee telefoniche erano inutilizzabili? Il tempo era freddo ma limpido. Stavano riparando una linea nelle vicinanze?

Disse a Nonna Royce il nome della sua città, ma Nonna disse solo “Che tu ci creda o meno, non ho mai sentito il nome di quella città. Come hai detto che si chiama?” Lo ripeté. “No, non mi dice niente. Mi spiace. Non saprei dirti in che direzione si trovi. Perché non resti per la notte, cara. Ti farò uno sconto per il disturbo.” “Grazie mille. E’ molto gentile da parte sua. Ma devo andare a lavoro domani e devo tornare a casa. Non sono neanche sicura del perché sono fuori casa stasera. L’unica ragione che avevo sembra non essere più tanto importante.”

“Tesoro, non ti consiglierei di rimetterti alla guida stanotte,” disse Nonna Royce. “Perché, sono quasi le tre del mattino, e non hai neanche dormito. Forse le linee si risistemeranno nel mattino, e potrai chiamare al lavoro e far sapere che farai ritardo.”

“Non funzionerà neanche così.” rispose. “Sono io che apro. Non ci sarà nessuno là ad aspettarmi. No, mi dispiace, devo davvero andare. Mi dirigerò nell’altra direzione finché non ritrovo la strada dalla quale sono venuta.”

Al che, l’espressione di Nonna Royce, già un po’ preoccupata, sembrò mutare – in una di paura. Fece una pausa, guardando Melinda come se volesse dirle qualcos’altro per trattenerla. Alla fine disse, a malincuore, “Va bene, tesoro, se sei sicura. Sta attenta, adesso. Non parlare con nessuno finché non sarai di nuovo in strada.”

L’ultimo avvertimento le sembrò un po’ sciocco. Dopo tutto, cos’era Melinda, una bambina? Ringraziò Nonna Royce per la sua gentilezza e si diresse verso l’auto. A circa metà strada dall’auto ricordò di aver pensato d’aver visto qualcosa muoversi tra gli alberi. I suoi occhi scrutarono entrambi i lati dell’area in cui si trovava, cercando qualsiasi cosa che sembrasse muoversi da sola piuttosto che mossa dal vento leggero. Non vide nulla. Soddisfatta, si avvicinò all’auto. Tutti e quattro gli pneumatici erano sgonfi.

Dannazione!

Si chinò e vide dei lunghi tagli su ogni copertone. Qualcuno in questo piccolo appezzamento di Green Acres le aveva fatto fuori i pneumatici nel tempo che aveva impiegato a scoprire che non avrebbe avuto alcun modo di contattare nessuno quella notte.

Dovevano essere stati i bambini di qualche fattoria limitrofa, pensò cupamente. Quando non si trova niente di meglio da fare, si esce la sera per tagliare pneumatici. Si fermò e se ne fece una ragione. Non sarebbe andata da nessuna parte quella notte. Non aveva alcuna scelta a quel punto; doveva rimanere là per la notte fino al mattino, quando con buon auspicio avrebbero risistemato le linee e avrebbe potuto chiamare qualcuno al lavoro per sostituirla, e poi il carroattrezzi per i pneumatici. Sospirò e tornò nella casa. Poté sentire Nonna Royce mentre tornava nella sua stanza. Aveva già spento le luci. Rassegnata al suo destino, Melinda suonò di nuovo il campanello.

“Sei tu, cara?” sentì chiamarla Nonna Royce.

“Sì, sono io,” rispose. “Mi dispiace disturbarla. Mi chiamo Melinda Orton. Mi scusi per non averglielo detto prima. Credo che prenderò una camera in affitto per la notte, se l’offerta è ancora valida.”

“Oh, certo che lo è, tesoro,” disse Nonna Royce, rientrando nella stanza e accendendo le luci. “Melinda. Oh, è davvero un bel nome, cara. Bene. Vediamo di sistemarti. Scrivi il tuo nome e l’ora di arrivo nel libro là e ti darò una chiave. Tutte le stanze in affitto sono al secondo piano, e ce ne sono solo un paio libere.”

“Ci sono altre persone qui?”

Questo dettaglio era inaspettato. Non c’era neanche un’auto nello spiazzo quando vi entrò lei.

“Oh sì, signorina Melinda.” Nonna stava trafficando nella stanza adiacente. “Il signor Norris, il giovane Calvin, c’è un po’ di gente qui.” Tornò con una chiave in mano. “Solo per curiosità, cosa ti ha fatto cambiare idea?”

Sembrò avvampare mentre le faceva questa domanda, sebbene fosse sollevata dal fatto che Melinda sarebbe comunque rimasta.

“Oh, probabilmente è colpa solo dei ragazzacci qua intorno,” disse. “Ma ho trovato le gomme dell’auto squarciate.” Nonna si fermò improvvisamente, la sua faccia incerta tra la curiosità e la preoccupazione. Poi si riprese, come se non ci fosse niente di strano.

“Non c’è nulla da fare per questo, suppongo.” disse, con una punta di tristezza. “Beh, almeno fino al mattino, in ogni caso,” disse Melinda. “Allora con un po’ di fortuna le linee saranno funzionanti.” “Oh,” disse Nonna Royce, distrattamente. “Sì, con un po’ di fortuna.”

Condusse Melinda su, attraverso una scala buia, in un ambiente silenzioso e vuoto. O, forse, non troppo silenzioso. Dall’altro capo della stanza arrivò il rumore ovattato di qualcuno che piangeva. Chiunque fosse, stava piangendo sommessamente – non con rabbia o stizza o paura, ma con una profonda tristezza. Sembrava il pianto di una persona che era abituata a farlo, ma non era capace di fermarsi.

“Chi è?” chiese, indicando la direzione dalla quale proveniva il pianto. “Oh, non prestarci attenzione, tesoro,” disse Nonna. “E’ solo Mr. Norris. E’ da un po’ che sta così. Un vecchio, capisci. Non è del tutto a posto.” Si picchiettò la tempia. “Capisco,” rispose Melinda, ma si chiedeva intimamente come un vecchio pazzo fosse finito in una road house. “E’ qui da molto?” “Da un po’, direi,” rispose Nonna. “In realtà non ricordo da quanto, esattamente.”

Come fa a pagare vitto e alloggio?

“Suppongo non sappia guidare,” disse alla vecchia signora. “Veramente, sembra che qui nessuno abbia un’auto.”

Nonna soppesò le parole, guardandola dal basso con un’espressione quasi colpevole. “Oh, già,” disse. “Quel genere di cose sono affari degli ospiti. Non faccio domande simili.”

Girò la chiave nella serratura della stanza alla quale aveva condotto Melinda, e aprì la porta. Accendendo la luce, mostrò a Melinda la stanzetta pittoresca. Melinda pensò che sembrava un salto nel passato. Poteva giurarci che quella stanza sarebbe sembrata moderna nei primi anni ’50.

Viene da farci un pensierino, così come tutto il resto della casa, pensò. Nessun servizio wireless, niente computer, quella vecchia campanella. E quei giornali, sembravano nuovi, ma…

Quel pensiero venne interrotto quando Nonna lasciò la chiave sul comodino per iniziare a dare le istruzioni.

“Dunque, il bagno è là in fondo al corridoio. Lo dividerai con tutto il piano, quindi per favore tienilo a mente se devi usarlo. C’è anche un programma per la doccia sulla porta. Il primo che arriva, si serve. Devi solo aggiungere il tuo nome nel primo spazio vuoto e quello sarà l’ordine in cui si useranno le docce. Non me ne preoccuperei comunque se fossi in te. Sono sicura che sarai la prima della lista. Mi sveglio precisamente alle 6 del mattino ogni giorno e faccio colazione, ma puoi venire giù quando vuoi e ti preparerò qualcosa. Oh, e un’ultima cosa, cara. Ti sconsiglio caldamente di non lasciare la casa finché il sole non è sorto. Non si può mai sapere cosa può esserci là fuori. Nel buio.”

“Certo,” rispose. Non sarei mai uscita al buio se non avessi dovuto…

Fermò il treno dei pensieri.

Dopo poco, fu sola. Sola, senza niente da indossare per la notte, e niente per farsi la doccia, per lavarsi i denti, o i capelli al mattino. Si sedette sul letto e guardò fuori dalla finestra, che si affacciava dritta di fronte a lei. La sua auto stava ancora là dove l’aveva lasciata, l’unica cosa nel raggio di chilometri che le sembrava parte del suo mondo.

Ed un pacchiano, costoso fermacarte, finché non potrò mettermi in contatto con qualcuno. pensò amaramente.

A dispetto della familiarità della stanza, sentì mancare la forza di volontà per alzarsi e spegnere la luce. In qualche modo il pensiero di dormire in quell’antiquata stanzetta le sembrava impensabile. Perciò invece, continuò a star seduta e a fissare fuori dalla finestra. Una figura in nero si separò dalle ombre degli alberi e si fece strada verso l’auto.

Che diavolo?! Saltò in piedi e corse alla finestra.

La figura era alta, e sembrava indossare un mantello fatto di notte. Vide il suo braccio steso. Nella sua mano c’era un lungo pugnale seghettato. Trascinò il pugnale sulle fiancate dell’auto, lasciando una lunga riga nella vernice e nel metallo.

“Hey!” gridò Melinda. La figura continuò a trascinare il pugnale. Cercò di aprire la finestra. Non si mosse. Cercò la serratura, ma non riusciva a vederne nessuna. “Hey!” gridò di nuovo.

Questa volta la figura alzò la testa. Poté vedere il luccichio di due occhi sotto il mantello. La figura innalzò il pugnale, lentamente, con determinazione. Lo puntò dritto verso la sua faccia. Balzò via dalla finestra e si precipitò verso la porta. Un rumore dall’altra parte la fermò. Passi. Passi trascinati, dinoccolati. E un pianto. Il rumore di una persona per la quale il profondo desiderio di tristezza è uno stile di vita.

Il signor Norris!

Aspettò. Per qualche motivo, sentiva che avrebbe dovuto lasciar passare il vecchio prima di aprire la porta. Prima che fosse lontano, comunque, sentì altri passi – questi molto più svelti e leggeri – correre su per le scale e fermarsi vicino alla porta della sua stanza.

Piantala!” sibilò Nonna Royce. “Torna subito nella tua stanza! Metti un po’ di giudizio. La ragazza ancora non può vederti. Non dovrà neanche farlo, con un po’ di fortuna. Ora torna là dentro. Non hai niente da fare fuori di qui a quest’ora in ogni caso.”

Come?!

Come poteva quella dolce vecchia donnina parlare in questo modo ad un altro essere umano, tralasciando il fatto che era un uomo anziano con la mente offuscata? Stava quasi per aprire la porta in quel momento, ma per qualche ragione la sua mano si fermò, e aspettò finché l’uomo dall’andatura strascicata e piangente non si fosse allontanato. Sentì la sua porta aprirsi. Aprì la sua porta giusto in tempo per vedere il suo piede, calzato in una scarpa logora, strisciare nella sua stanza. La porta si richiuse dolcemente alle sue spalle.

Quel pover’uomo, pensò.

Ma adesso era determinata a scoprire cosa stava succedendo. Il teppista fuori in quel costume da Halloween che le aveva tagliuzzato l’auto, seguito dalla Nonna che sgridava un vecchietto, le fecero capire che qualcosa non quadrava lì.

Scese giù nella hall, che era completamente buia ad eccezione della luce della Luna e di quella del portico che filtravano attraverso la finestra.

C’era tuttavia una luce vicino alla stanza sul retro dalla quale era emersa prima Nonna Royce. Melinda si fermò per dare un’occhiata fuori dalla finestra di fronte. Il maniaco col pugnale non era visibile, per il momento, ma adesso era sicura che fosse lui ciò che aveva visto muoversi tra gli alberi.

Avrebbe potuto uccidermi!

Sì diresse verso la luce, notando che era l’illuminazione della cucina. Continuò ad avvicinarsi aspettandosi di trovare Nonna Royce a fare i lavoretti che qualunque vecchio oste farebbe nelle prime ore del mattino.

Invece, trovò la Nonna seduta con un giovane uomo sulla ventina. Aveva i capelli scuri e una barba incolta ed indossava una camicia marrone scuro di velluto a coste, con un cappello di foggia maschile. Sembrava fosse pronto per andare a vendere giornali ad un angolo di strada negli anni trenta. Stava pacatamente sorseggiando un té mentre la Nonna lo ammoniva dall’altro capo del tavolo.

“Questa è una cosa orribile da dire!” disse. “Quando avevo la tua età, i giovani uomini tenevano alle buone maniere!”

“C’è da ridere a parlare della mia età,” mormorò il giovanotto con un ghigno. “E tu quanti anni hai? Te ne ricordi ancora?”

“Calvin Davidson, sei nei guai, ragazzo,” sibilò in risposta. Nessuno dei due aveva ancora notato Melinda. “Uno di questi giorni dirai qualcosa di cui ti pentirai.”

“Oh, andiamo Nonna, cosa potrei dire di tanto grave da rendere le cose peggiori di quel che sono?” chiese Calvin. “Voglio dire, guarda il vecchio Norris lassù! Entrambi siamo v… ehm, salve, signorina. Non sapevo avessimo qualcun altro qui.” disse appena vide Melinda.

“Uh, ciao.” rispose lei.

Ebbe l’impressione di aver interrotto un vecchio discorso che i due avevano intrapreso molte volte, e ciò non la preoccupò. La sua paura e la sua rabbia erano assopite per il momento. Calvin si era rivolto a Nonna come un bambino imbronciato, ma c’era qualcosa in ciò che stavano dicendo che suonava… sbagliato.

“Posso aiutarti, Melinda?” chiese Nonna Royce. “C’è qualcosa che non va nella tua stanza?”

Quello la riportò indietro. “No,” disse. “La stanza va bene. Ma è l’unica cosa che va bene! Voglio dire, perché ci dovrebbe essere una roadhouse qui dove non sembra passare un’anima? Perché la maggior parte delle stanze sono prese sebbene ci sia solo la mia auto là fuori? Perché ho sentito lei parlare al signor Norris come se fosse un cane? E perché vorrebbe esser sicura che non lo veda?”

Non andò oltre, Calvin la interruppe. “Buon Dio, non è qui neanche da una notte e può già vederlo. Perché l’hai fatta entrare, Nonna? Perché non spranghi la porta una buona volta? Diamine, se potessi avere la possibilità di togliere quell’insegna non pensi che l’avrei fatto, ormai? Non avrei affatto paura.”

Ci sono espressioni che i ragazzi non pronunciano, pensò Melinda. Decise di ignorare Calvin per il momento, tuttavia.

“E oltre a questo, c’è qualcuno là fuori! E’ il pazzo che ha squarciato i miei pneumatici ed è lì a rovinarmi la macchina da allora! E non potete neanche chiamare la polizia! Volete dirmi che non avete mai avuto un vandalo prima?”

Calò un lungo silenzio nella stanza. Né Nonna, né Calvin sembravano disposti a interromperlo. Calvin si grattò la nuca. Per la prima volta Melinda notò una riga rossa sulla sua gola, seminascosta dal colletto. Sembrava una cicatrice molto fresca o una ferita guarita da poco.

“Ascolta, signorina, non so il tuo nome,” disse infine. “Melinda”, rispose. “Melinda,” ripeté. “Melinda, penso che dovresti sederti. Devo dirti una cosa che potresti trovare… inquietante.” A Melinda non piacque il modo in cui lo disse. Non le piacque neanche il modo in cui il suo tono di voce era cambiato dal bambino imbronciato all’adulto serio. Sembrava di diversi anni più giovane di lei, ma le parlava come se fosse suo zio, o il suo capo.

Ingoiò un sorso di té e sospirò.

Poi la guardò dritto in faccia e le disse: “Il motivo per cui non ho un’auto là fuori è perché quando arrivai qui, nessuno della mia età, nessuno del mio ceto sociale, avrebbe potuto possedere un’auto. Sarebbe parso un sogno impossibile.”

“Di che… Cosa stai parlando?” chiese lei, esitante. “Lavoravo in una fabbrica tessile,” disse. “La fabbrica venne chiusa al tempo e venni qui. La maggior parte delle fabbriche erano nella stessa situazione. Per cui mi licenziai da solo; un vagabondo in cerca di un lavoro. E mi fermai qua. Per sempre.” “Le fabbriche erano chiuse… Non capisco,” disse Melinda. “Siamo in un periodo di difficoltà adesso, ma le attività sono per lo più aperte…” “Non a quel tempo, non lo erano,” disse Calvin, tristemente. “Arrivai qui… nel 1929.”

Melinda sbatté le palpebre. Qualcosa pareva le fosse esploso dietro agli occhi.

“Questo posto era nuovo all’epoca,” disse Nonna. “Mio marito ed io l’avevamo appena aperto. E il giovane Calvin era un dolce ragazzino di sedici anni. Gli offrii di rimanere come aiutante nonostante le obiezioni di mio marito. Beh, mio marito era un uomo ben intenzionato, ma sapeva come fare la cresta. Fu dopo un anno dall’assunzione di Calvin che il signor Royce morì. Calvin ed io siamo rimasti qua da allora. E ogni qualche anno o giù di lì, qualcuno si unisce a noi.”

“Sì,” Calvin la interruppe. “la signorina Tillie fu la prima; era una donna di malaffare che corse qua da noi, incinta, e spaventata dal fatto che l’uomo che l’aveva venduta a New York potesse trovarla ed ucciderla. Lei ed il bambino…”

Si interruppe, ora sembrava fosse sul punto di piangere.

“E poi,” disse Nonna, “ci fu il signor Standish. Era un ambasciatore. Non viaggia più ora.” “Il signor Norris arrivò qui nel ’69,” disse Calvin. “La sua storia forse è la peggiore. Era un… beh, era un rapinatore di banche, vedi. Portava una pistola con sé. E non gli piacque l’idea di sapere quanto a lungo saremmo rimasti qui.” Si fermò, si alzò e si avvicinò alla finestra della cucina. “Provò ad andarsene da solo, vedi. Non fu il primo a provarci. Fui io, veramente. Lo misi in guardia dal provarci, ma non mi ascoltò. Ma quando uscì fuori… e lo incontrò…”

“Calvin!” sibilò Nonna. “Noi non ne parliamo!”

“Lei dovrà pur sapere,” disse Calvin. “Non c’è nessun motivo di lasciarglielo scoprire lentamente.”

“C’è ancora una speranza per lei!” disse Nonna in un sussurro. “Tutto ciò che deve fare è aspettare fino al mattino…”

“Non aspetterà fino al mattino,” disse Calvin con qualche rimorso nella voce. “Nessuno aspetta mai fino al mattino. Il fatto che è scesa giù ne è una prova sufficiente. Inoltre, che beneficio potrebbe mai trarne? La sua auto è inutilizzabile. Non abbiamo telefoni qui. Non c’era un telefono quando questo posto venne costruito e non ci sarà mai adesso. Lo sai.”

“Va bene, basta!” urlò Melinda. “Basta! Non potete tenermi chiusa qui dentro e non ho nessuna intenzione di rimanere ancora a lungo. Solo quel maniaco armato di coltello mi trattiene dal correre per la strada adesso! Ora, devo sapere cosa sta succedendo qui e devo saperlo adesso!”

“Te lo stiamo dicendo,” disse Calvin. “Nonna potrebbe non volere che tu sappia tutto, ma ne hai bisogno. Perché non te ne andrai. Oh, e non stiamo cercando di tenerti prigioniera. Neanche me ne importerebbe se adesso corressi alla porta. Ma non potrai più lasciare questa casa di nuovo, poi.”

“Col cavolo che non lo farò” strillò Melinda.

“Ascolta, figliola!” disse Nonna, alzandosi dal suo posto. “Ascoltami, per favore! Nessuno di noi vuole farti del male, cara, neanche il signor Norris. Sono poche le cose che riesce ancora a fare, e lo sa. E’ per questo che sta sempre lassù a piangere per tutto il tempo. Ma noi siamo bloccati qui, tutti quanti. Speravo che ci fosse una possibilità che tu riuscissi ad andartene in mattinata, ma Calvin ha ragione. Non c’è alcuna garanzia che al mattino saresti al sicuro, in ogni caso.”

“Che… diavolo… succede in questo posto?” singhiozzò Melinda.

Stava cominciando ad avere un esaurimento, poteva sentire le lacrime rotolarle via dagli occhi.

“Fu circa un mese dopo che il signor Royce morì,” disse Calvin. “Quando lui arrivò. Indossava quel lungo abito nero e si portava dietro quel ridicolo coltello. Lo vidi mentre rifilavo le siepi sul retro. Gli dissi di andarsene da qua, perché quel tipo non mi piaceva. Si… si mosse così velocemente che non lo vidi avvicinarsi. E mi colpì, da qui…” Calvin si toccò il collo. “… fino a qui.” Si tocco il basso ventre sul lato opposto rispetto al taglio sul collo. Cominciò a slacciarsi la camicia. Melinda quasi vomitò. Sotto la camicia vi era un lungo, brutto taglio profondo… dal quale ancora stillava sangue. Poteva vedere le ossa, i muscoli e gli intestini contorcersi dentro quel corpo straziato. “Morii quella notte,” disse Calvin.

“Ma invece no. Venni poi a sapere che ero stato trascinato in casa da Nonna, e quando mi svegliai, la spaventai a morte. Era sicura che fossi morto. Il punto è che lo ero. Potevo parlare, camminare, fare qualsiasi cosa che potevo fare in vita. Beh, tranne trarre qualsiasi piacere o nutrimento dal cibo o dalle bevande. Bevo ancora quel té perché impedisce alla mia pelle di diventare color grigio cenere. L’ho capito circa cinquant’anni fa.”

“Non se n’è andato, però,” interruppe Nonna. “Uscii fuori per incontrarlo, portandomi dietro la mia ascia. La prese e la conficcò nella mia schiena. Non ti mostrerò la mia ferita, tesoro. Calvin non avrebbe neanche dovuto mostrarti la sua. Nessuno dovrebbe vedere una cosa simile.”

“Ma è così che va, Melinda,” continuò Calvin. “Ha quel coltello, ma se cerchi di usare un’arma contro di lui, lui… si muove come fa lui e te la strappa via. Non hai una possibilità contro di quell’uomo. Userà qualsiasi arma tu cerchi di portarti dietro per finirti. Il signor Norris l’ha imparato nel modo peggiore.”

“Questo… questo non sta succedendo!” Melinda era sul punto della disperazione. Doveva trattenersi. Doveva uscire da lì, in qualche modo. Non era possibile. Niente di tutto ciò poteva essere vero.

Era tutto un sogno; troppe cose non avevano senso. Suo padre che la chiamò all’improvviso. Lei che usciva per raggiungerlo senza pensarci su neanche un secondo. Perdersi così velocemente, e irreversibilmente. Nessun campo in nessun punto su quella strada. Quel posto, qualsiasi cosa lo riguardasse! Stava sognando; doveva essere così. Ma anche se fosse stato, voleva sopravvivere a quel sogno. Si voltò e corse per le scale. La sua borsa era ancora nella sua stanza, stava per andare a prenderla e andare via. Ne aveva avuto abbastanza. Voci di protesta cominciarono a levarsi dietro di lei; a lei non importò affatto. Il signor Norris stava attendendo in cima alle scale. Contrariamente alla sua descrizione data dalla Nonna Royce, non era per niente vecchio. Non doveva aver più di quarant’anni.

Ma lei vide immediatamente cosa intendeva Nonna Royce con “non è del tutto a posto”. La parte superiore della testa del signor Norris sembrava normale, quella di un uomo abbastanza attraente con capelli scuri sale e pepe. I suoi occhi, di un verde chiaro, erano umidi di lacrime fresche. La metà inferiore del viso era un rudere di frammenti d’ossa, muscoli tranciati e sangue. Tanto sangue. Il suo lato sinistro era ugualmente distrutto. Il suo braccio rimaneva appeso grazie a qualche tendine, il suo fianco era un disastro di ossa e sangue quanto il suo viso. Mantenne la mano buona sul corrimano mentre si trascinava verso di lei. Dietro di lei c’era una giovane donna in reggiseno e mutandine. Il suo ventre era squarciato e, con lo sguardo intelligente e luminoso rivolto verso l’esterno, c’erano i resti straziati di un bambino. Melinda si voltò e si precipitò verso la porta d’ingresso. La sua mano si era appena serrata sulla maniglia quando Calvin la raggiunse, mettendo le sue mani gelide sulle sue.

“Non ti faranno del male,” disse rapidamente. “Ma lui lo farà. Se fai un passo fuori per un istante solo, ti ucciderà, e sarà doloroso. E continuerà a far male. Per sempre. Dopo un po’ inizi ad imparare come gestirlo, ma non se ne va mai.”

Singhiozzando, porse la domanda che temeva di fare da quando era là.

“Chi è?”

“Non lo sappiamo,” disse Nonna, da dietro Calvin. “E’ solo che… è qui, e non se ne andrà. Gli piace guardarci, e fare cose per incitarci ad uscire di nuovo. Appena qualcuno lo fa, lui lo colpisce con più violenza. Ma non importa quante volte lui ci uccida, non moriamo. Credimi quando ti dico che tutti noi avremmo voluto, invece.”

Melinda ne aveva avuto davvero abbastanza. Spinse via Calvin e spalancò la porta. Lui era fermo nel portico. Il coltello era dritto di fronte a lui, all’altezza del viso.

Melinda gli corse incontro, il coltello le bucò l’occhio destro e la punta le passò attraverso, uscendo dall’altra parte. Fece appena in tempo a vedere la faccia completamente bianca, ghignante, del suo assassino, prima che tutto divenisse nero.

Poche ore dopo, la casa venne invasa dalle urla al piano di sopra quando Melinda si risvegliò in preda ad un dolore indicibile, un tipo di dolore che non aveva mai provato prima.

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