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L’edificio sigillato

 
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Quando ero bambino, la scuola che frequentavo era alquanto singolare e straordinariamente interessante. Forse perché era circondata da un giardino invaso dai cespugli ed era di fronte a un sinistro bosco che dava sfogo alla mia immaginazione, o forse perché era popolata da eccentrici, divertenti e, a volte, temibili insegnanti e bambini. Non lo so. Non sono nemmeno certo di quando essa sia stata costruita, ma si distingueva dalle altre case e dalle tranquille strade che le stavano attorno, essendo dipinta con quella brillante vernice rosso fuoco che catturava subito lo sguardo. La frequentai dai cinque anni agli undici, o dodici, e, come la maggior parte dei bambini, ho sia bei ricordi legati ad essa, sia brutti.

Ogni giorno, con uno zaino sulle mie spalle, camminavo a fianco a quel sinistro bosco e salutavo la ‘signora del lecca-lecca’, Mrs Collins – una gentile e anziana donna, il quale lavoro era fermare il traffico con la sua gialla e brillante paletta da vigile, permettendoci di attraversare la strada in sicurezza – e, dopo aver raggiunto i miei amici, mi dirigevo oltre il grande cancello arrugginito, per ritrovarmi in uno dei due giardini della scuola.

Girava voce che, in passato, esistevano due giardini divisi per separare i maschietti dalle femminucce – un concetto tanto comprensibile quanto obsoleto. Per tutto il periodo in cui sono andato in quella scuola, il primo giardino veniva assegnato ai bambini dai cinque agli otto anni, mentre il secondo a quelli dagli otto in su. Nel giardino dei bambini più grandi c’era un piccolo edificio di mattoni rossi, isolato dal resto del complesso scolastico. Era da tempo in disuso, e infatti era stato sigillato da occhi indiscreti, le sue porte e le sue finestre erano state murate con malta e pietra, rendendo impossibile osservare cosa ci fosse all’interno.

Il suo scopo era un po’ misterioso, e tutti gli insegnanti evitavano completamente qualunque discussione che riguardasse quell’edificio. Nonostante ciò, varie storie si diffusero grazie alla fervida immaginazione dei bambini, e nella scuola queste infondate e bizzarre teorie su tragedie e luoghi proibiti spesso portavano all’espandersi di altrettanto bizzarre voci e pettegolezzi, soprattutto riguardanti quell’edificio sigillato – l’ignoto è un terreno fertile per i pensieri dei giovani.

Quando io e i miei amici giocavamo nel giardino dei più piccoli, a volte ci infiltravamo in un piccolo passaggio che portava all’altro giardino, per poter sbirciare da dietro il muretto. Potevamo vedere i bambini più grandi giocare a calcio o correre in giro – è divertente come i bambini piccoli vedano quelli più grandi pensando che sembrino divertirsi molto più di loro. Ma prima che un bidello o un insegnante potesse cacciarci via, i miei occhi cadevano sempre su quell’edificio sigillato. C’era un’aura desolata attorno ad esso, isolata, e le urla e la vivacità dei cortili della scuola evidenziavano ancor di più quel suo grave silenzio.

Ad alcuni dei più grandi piaceva spaventare sia noi che loro stessi, e raccontavano con tono drammatico che quell’edificio era stato usato come laboratorio scientifico e che vi era avvenuto un terribile incidente, il quale aveva provocato la creazione di abominevoli e raccapriccianti cose,  cose che dovevano essere assolutamente nascoste al mondo – anche se avevo solo otto anni, intuivo che quella teoria non avesse molto senso quando la sentii. Poi si iniziò a dire che fosse invece stato usato come ufficio di un brutale preside, decenni prima, e che egli fosse morto lì a causa di un incendio. Il suo fantasma ancora infestava quel luogo ed era meglio che la sua vendicativa anima rimanesse rinchiusa, ancora seduta dietro la scrivania, mentre tutti i bambini giocavano spensierati attorno alla struttura – ancora una volta, altre sciocchezze.

C’era comunque una diceria riguardante il motivo per cui esso fosse stato abbandonato che appariva la più plausibile, secondo il mio punto di vista. Quella struttura, realmente, era una latrina. Sì, un normalissimo bagno. Senza fronzoli, senza laboratori segreti, senza spiriti di ipotetici e arroganti presidi. Era stato sigillato dopo che furono installati dei nuovi impianti idraulici all’interno della scuola, per evitare che i ragazzi lo vandalizzassero. Eppure, nonostante questa banale spiegazione, rimanevano comunque molte favole da raccontare su quell’isolato edificio di mattoni rossi del giardino dei più grandi.

Nonostante io abbia ascoltato tutte queste storie, non mi sentii intimorito da quella costruzione fino a che non raggiunsi il quarto anno di scuola, quando iniziai a sentirmi a disagio. Il giardino dei più grandi confinava su tre lati con delle sezioni della scuola, mentre il quarto lato era separato dalle case adiacenti da un muro di mattoni rosso scuro, pieno di muschio. Era separato dall’altro giardino, e, tanto per aumentare ancor più il senso di prigionia, era circondato da alte recinzioni metalliche che si innalzavano ad una altezza oltre la quale solo i più coraggiosi tentavano di spingersi. Inoltre, c’era una sorta di vecchio cancello che permetteva l’accesso ma, proprio come delle guardie carcerarie, gli insegnanti tendevano a tenerlo sotto controllo regolarmente.

E poi lì, nell’angolo del parco, giaceva il vecchio edificio. Le sue finestre fisicamente chiuse da mattoni, così come lo erano le sue due porte, ma il tetto mi pareva in qualche modo insolito, essendo piatto e sicuramente pieno di molte pozzanghere d’acqua raccolta durante i periodi piovosi. Ero, a quell’età – e con grande imbarazzo tutt’ora – terrorizzato dalle altezze, ed ero rimasto scandalizzato quando avevo scoperto che l’arrampicarsi su quel tetto era visto come un ‘rito di passaggio’ o qualcosa del genere. Non fraintendetemi, non eravamo costretti a farlo, ma i bambini sono in grado di essere crudeli quando qualcuno di nuovo mostra segni di debolezza, o di paura, e spesso ciò sfociava in prese di mira e atti di bullismo.

Nelle settimane successive al mio arrivo, vedevo come ognuno dei miei amici si arrampicasse sopra quel tetto quando gliene si parava l’occasione, lasciando ciondolare le loro gambe con nonchalance oltre il lato una volta averlo raggiunto; uno dopo l’altro, ottenendo il diritto di poter stare nel parco giochi dei più grandi, mentre su di me incombevano i sempre più numerosi insulti sulla mia paura e codardia. Credetemi se vi dico che ci provai. Più di una volta una palla veniva calciata accidentalmente sopra quel tetto e toccava a me recuperarla. Mi aiutai anche con il tubo della grondaia per far in modo che la mia mano raggiungesse per lo meno la superficie del tetto. Ma ogni volta fallivo. La paura mi avrebbe attanagliato, e ad ogni ammissione di sconfitta il mio imbarazzo accresceva, così come i nomignoli che mi affibbiavano.

Posso rimembrare però un curioso, e forse svantaggioso, aspetto della mia personalità del tempo. Vedete, fallire di fronte a dei perfetti sconosciuti non è un problema per me, ma con amici, famigliari e conoscenti? La sola idea mi fa sudare freddo. Successivamente, lungo la mia vita, decisi di percorrere il tipico percorso per raggiungere la fama, come molti adolescenti, e non avevo problemi a suonare nelle bande di fronte a tutta quella gente che non conoscevo. Ma bastava anche un solo volto famigliare nel pubblico e il panico avrebbe preso piede. La posta in gioco aumentava notevolmente, almeno nella mia mente.

Per questo motivo scelsi davvero un bizzarro  momento per affrontare la mia paura. Un giorno, dopo scuola, attesi al di fuori dei cancelli, osservando gli altri bambini che uscivano dai due giardini, calciando coi loro piedi le foglie autunnali. I genitori accompagnavano i più piccoli, mentre quelli più grandi camminavano assieme ai loro compagni di classe – alcuni felici, altri un po’ meno – intraprendendo la loro strada giù per la collina, passando a fianco al bosco, verso le loro case.

Quando la scuola divenne vuota, e gli insegnanti stessi iniziarono ad andarsene, camminai per la mia strada, rientrando nel giardino dietro la scuola. Ho sempre trovato la parte posteriore della mia scuola un luogo alquanto interessante. Era pieno di arbusti, siepi, e aveva un vecchio campo da calcio. I nostri insegnanti sembravano non utilizzare mai quell’area, e noi eravamo continuamente incoraggiati a tenerci lontano da essa. Anche qui, giravano alcune storie tra gli studenti, di un bambino che era stato rapito mentre giocava lì, anni prima. Che fosse la storia veritiera o meno, non lo so.

Una volta essermi accertato che tutti se ne fossero andati, mi infiltrai di nascosto tra i cespugli di questo ex giardino ricreativo. Lì, nel muro, si trovava una stretta porta marrone che gli insegnanti tenevano sempre sott’occhio, ma per quanto ne sapevo io non era mai stata usata. Immaginavo che essa servisse per qualche legittimo scopo anni addietro, ma per me e i miei amici era il luogo che scavalcavamo, per poter giocare nei giardini della scuola nei weekend, quando nessun altro era presente – era un posto eccezionale per giocare ad acchiapparella o a nascondino, con tutti quegli angoli e fessure in cui ci si poteva nascondere.

Avanzando con cautela, desideravo davvero provare a raggiungere il tetto di quei vecchi bagni. Nella mia mente di bambino di otto anni, immaginavo ci apparire lassù la mattina e sorprendere i miei amici, oppure riuscire a recuperare velocemente la palla di una ragazza – durante l’infanzia siamo davvero convinti che a quelli che ci circondano importino molto le nostre azioni, ma nella realtà sono davvero di piccola importanza, se non per noi stessi. Sì, sono stato vittima di bullismo per del tempo per non essere forte e coraggioso come quelli attorno a me, e il pensiero della  paura del fallimento di fronte a quel pubblico, dell’insicurezza, di tutte quelle forti emozioni che vengono esagerate in giovane età fu sufficiente a darmi il coraggio di tentare quell’arrampicata.

Avevo preso in considerazione il chiedere ad un qualche mio amico di venire assieme a me, in quanto ero preoccupato che un insegnante potesse essere comunque rimasto lì, che sarei finito nei guai, e che avevo quindi bisogno di qualcuno che mi facesse da guardia, ma questo mi avrebbe solamente dato una persona di fronte la quale avrei potuto fallire. Avevo deciso di tentare quella sfida per conto mio. Dopo aver aspettato per quello che sembrò essere un anno intero, lentamente scavalcai quella porta, che iniziò a traballare a causa dei miei movimenti, producendo un rumoroso eco per tutto il giardinetto. Dopodiché, dopo aver controllato con esitazione ogni singola finestra che costellava la mia scuola, e dopo essermi assicurato che nessuna delle luci fosse accesa, mi avviai silenziosamente verso l’edificio sigillato.

Nonostante sapessi perfettamente che la presenza di qualcuno avrebbe avuto ricadute sulla mia fiducia, in parte avrei voluto non essere solo, poiché quell’edificio e la desolazione intorno ad esso mi mettevano a disagio. Sapevo anche, però, che una volta essere riuscito a raggiungere la cima, avrei finalmente sconfitto la mia fobia e sarei stato in grado, da quel momento, di potermi arrampicare fin lassù ogni volta che avrei voluto in futuro. Sperando, inoltre, di eliminare tutti i soprannomi che mi avevano affibbiato.

Rimasi a fissare il tubo della grondaia, che sarebbe stato la strada per il mio successo, aggrappandomi ad esso come la ruggine al ferro di cui era ricoperto. La mia mente era offuscata e traeva dall’immaginazioni le peggiori possibilità, concentrandosi sue quelle più negative, mentre io iniziavo ad arrampicarmi. Immaginai che da un momento all’altro il tubo si potesse staccare dalla parete, gettandomi contro il terreno cementato.

La verità è che esso proprio non si muoveva, non importa quanto potessi essere convinto che lo facesse. Senza che ci fosse un testimone che potesse affermarlo, ero in quel momento molto più in alto di quanto non avessi mai raggiunto, ero perfettamente in grado di poggiare completamente la mia mano sulla superficie del tetto. Il mio cure accelerò per l’eccitazione, mentre iniziai a credere che potessi davvero farcela, che il successo era alle porte.

Feci poi l’errore di guardarmi in basso, per controllare i progressi che avevo fatto. La sensazione dell’altezza è qualcosa di difficile da trasmettere a qualcuno che non ha mai avuto problemi con essa. Mentre realmente non ero a più di sette o otto piedi di altezza, percepivo quella distanza dal terreno come se fosse monumentale. Mi si rivoltò lo stomaco, il mio cuore iniziò a battere irregolarmente e il mondo sotto di me iniziò a girare e a distorcere. E peggio ancora, facendomi prendere dal panico permisi al mio corpo di indebolirsi, e potei allora sentire la mia presa allentarsi.

È strano come funzioni la mente, per come ero pronto ad ammettere nuovamente la mia sconfitta e ritirarmi, gli insulti dei miei compagni di classe risuonavano nei miei pensieri, come se loro fossero stati lì presenti in quel momento, beffeggiandomi. Con quello che sembrò a me un enorme sforzo, mi ritrovai a continuare la mia arrampicata verso l’alto, la mia mano protesa verso l’umido tetto, e, prima di rendermene conto, lo raggiunsi.

Liberai una risata di eccitazione, una sensazione di sollievo mi percorse tutto il corpo. Non vedevo l’ora che fosse il giorno successivo. Essere sopra a quel tetto, dimostrando a coloro che erano stati crudeli con me che si sbagliavano. Sbirciando oltre il bordo mi faceva provare ancora i brividi per l’altezza, ma non come avevo sentito prima, il mio trionfo aveva represso la mia ansia.

Eppure, non ero comunque entusiasta di rimanere lassù per dell’ulteriore tempo, quindi decisi di indagare brevemente quello che mi circondava, per poi scendere e ritornare alla sicurezza del terreno del giardinetto, e tornarmene a casa felice. Il tetto era dipinto di un rosso fuoco simile a quello della scuola, ma era in parte scolorito e scrostato, suggerendo che ne era passato di tempo dall’ultima volta che qualcuno gli aveva passato una mano di colore.

Alzandomi in piedi con cautela, sentii le mie gambe vacillare un po’ e il mio stomaco si agitò di nuovo, al pensiero di quanto in alto mi ritrovavo – divertente il fatto che quest’ultima non sarà stata alta più di dieci piedi. Ma non importava quanta fifa stessi provando in quel momento, la sensazione di vittoria che scorreva nelle mie vene era davvero meravigliosa.

Camminai lentamente da un lato all’altro del tetto, prestando attenzione a non inciampare. La breve passeggiata tra la grondaia e il lato opposto e viceversa nutriva ancor più quel mio senso di conquista, come qualcuno che pattugliava il suo territorio, per quei brevi momenti quel tetto, quell’edificio, era mio.

Proprio mentre mi girai per riscendere la grondaia, notai che nel centro del tetto c’era un buco. Non so come non fossi riuscito a vederlo prima, anche se era abbastanza piccolo, ma era largo abbastanza per farci passare la mia mano, e nient’altro. Curioso, mi avvicinai e inginocchiai per gettarci uno sguardo più attento.

Sì, c’era effettivamente un’apertura, e la luce passava oltre essa illuminando l’interno. Avvicinai il mio occhio il più possibile, evitando di bloccare la luce, e rimasi sorpreso da ciò che vidi. Laggiù era completamente buio, come una tomba ben conservata, con le bianche piastrelle vintage rimaste intatte. Potevo scorgere i lavandini dove, anni prima, gli studenti si lavavano le mani o si schizzavano l’acqua per divertimento, e tre cabine – stanzette con delle grandi porte marroni – che avevano l’aspetto di essere ancora in uso. L’aria all’interno era viziata dagli anni e piena di polvere, ma se, ipoteticamente, qualcuno mi avesse detto che quell’edificio era stato chiuso solo il giorno prima, gli avrei creduto. Se non per una cosa, uno strato di acqua stagnante che ricopriva il pavimento; senza dubbio accumulatasi con la pioggia che entrava da questa apertura del tetto.

Poi mi resi conto di un forte odore. Un odore pungente che mi mise timore. Sì, non c’erano dubbi, nelle vicinanze qualcuno stava fumando una sigaretta. Sentii un tuffo al cuore mentre rimanevo sdraiato immobile, maledicendo me stesso per essere rimasto troppo tempo in quel tetto solo per ‘celebrare’ la mia vittoria. Un insegnante o un bidello doveva essere rimasto a lavorare fino a tardi ed era probabilmente nel giardino per una pausa. Immaginai che si trovasse molto vicino all’edificio, in quando l’odore era molto intenso.

Rimasi rannicchiato sul freddo calcestruzzo in attesa che chiunque fosse stato lì se ne andasse. L’ormai caustico fumo sembrava aumentare d’intensità, e più di una volta dovetti trattenere il fiato, temendo di tossire e quindi di essere scoperto. Non penso di esagerare quando dico che rimasi lì fermo per almeno un’ora e mezza, ma mi ci volle tutto quel tempo per fare una semplice, e inquietante, osservazione. Mentre potevo sentire l’odore del fumo – e sembrava che stessi inspirando tanto fumo quanto quello del fumatore stesso-, non potevo vederlo. Mi sarei aspettato di vedere una scia di fumo salire dal basso verso il tetto, ma non c’era nemmeno il minimo filo.

Il cielo autunnale si stava oramai oscurando e iniziai a provare sempre più freddo, La pietra umida sotto di me mi rabbrividiva tutto il corpo. Desideravo di non essere  mai riuscito a salire lì sopra; iniziavo a sentire la fame accrescersi, ed ero consapevole anche del fatto che i miei genitori avrebbero iniziato a preoccuparsi. Cercai di convincermi ad allungare la testa oltre il bordo del tetto, per poter dare una veloce occhiata e vedere chi c’era. Se poi quel qualcuno si fosse invece trovato sul lato opposto, avrei potuto approfittarne per scendere di nascosto. Scivolai verso un bordo il più silenziosamente possibile e lentamente sbirciai oltre si esso, verso il basso, attento a non fare movimenti bruschi o attirare l’attenzione.

Non c’era nessuno. Il giardino era vuoto, e le finestre oscurate della scuola sembravano vacue come non mai. Nonostante ciò, l’odore di fumo di sigaretta ancora riempiva i miei polmoni e mi bruciava gli occhi. Dopodiché, assistetti a qualcosa che mi inchiodò al suolo. Un lieve filo di fumo scivolava verso l’alto, passando attraverso il piccolo foro del tetto – qualcuno era lì dentro. Qualcuno era all’interno di quella stanza sotto di me.

Sembrava essere impossibile. Per quanto ne sapevo, non c’era modo di entrare in quell’edificio. Era stato sigillato perfettamente dal mondo esterno, eppure c’era quella nuvola di fumo che veniva espirata dalla bocca di qualcuno di invisibile, e che risaliva da quel foro.

La felicità di aver finalmente affrontato la mia paura dell’altezza sembrava solo un lontano ricordo, in quel momento l’unica cosa a cui pensavo era scendere da quel tetto. Ma quel buco si trovava tra me e la grondaia, ma la mia curiosità venne catturata come mai prima di allora, e decisi di dare una seconda occhiata oltre il buco prima di fuggire velocemente e lasciarmi quella struttura alle spalle.

Come mi avvicinai all’apertura, l’odore di fumo divenne ancora più forte, e mentre sbirciai all’interno il pensiero “Non guardare” sibilò nella mia mente. Ma era troppo tardi. Avevo ormai guardato. In un primo momento non c’era nulla. La stanza sottostante sembrava ancora più oscura di prima, ma questo poteva essere a causa del cielo che si stava scurendo e i miei occhi ancora non si erano adattati. Ciò che non poteva però essere spiegato era il rumore che sentii provenire da lì dentro.

Sembrava molto distante inizialmente, indistinto e incerto. Poi a poco a poco prese forma, sembrando una persona che soffocava. Sorrisi immaginando che era il fumo della sigaretta di alcuni ragazzi che avevano un covo segreto laggiù, ma dopo, improvvisamente, nel buio, i miei occhi vennero attratti verso le tre cabine. Le porte erano chiuse, e non ero del tutto sicuro che anche prima lo fossero. Inclinai la testa più vicino al foro, ma la mia nuova angolazione non mi permise di controllare meglio.

Mentre il suono di qualcuno che soffocava aumentava, la stessa cosa fece l’odore del fumo. Il suono e l’odore vennero poi affiancati da qualcosa che fece rabbrividire la mia anima. Venni preso dal panico e lanciai un grido, mentre una delle porte tremò, come se qualcuno la stesse violentemente calciando dall’altro lato. Il fumo riempiva completamente i miei polmoni e i miei occhi si inumidirono di lacrime, facendo in modo che io non vedessi più nulla, ne all’interno dell’edifico, né all’esterno.

Poi cessò. Il suono di soffocamento scomparve, l’odore di fumo svanì. Per un momento iniziai a pensare di essermi immaginato tutto. Ansimai alla ricerca di aria, respirando profondamente, solo per farmi prendere dal terrore una seconda volta. Nel buio silenzio; nella fredda e umida stanza. Il rumore di passi nell’acqua rimbombò nell’aria. La porta di una delle cabine iniziò a scricchiolare, aprendosi.

Non posso dire tutto quello che avvenne in seguito. Credo di aver rimosso gran parte di esso dalla mia memoria. Evidentemente il preside – un intimidatorio ma gentile uomo dei nome Mr McKay – stava lavorando nel suo ufficio a quell’ora tarda. Quando venne disturbato dal suono delle mie urla, si precipitò fuori e mi trovò sopra quel tetto, rannicchiato a pallina, paralizzato dalla paura, singhiozzante. Dopo alcune parole di conforto, mi aiutò a scendere e mi portò nel suo ufficio, dopo avermi ancora garantito che ero al sicuro, dopodiché telefonò ai miei genitori, dicendo loro di venirmi a prendere.

Mi fidai di Mr McKay e, combattendo contro le lacrime, descrissi ciò che era accaduto. Il tetto, il fumo, la cabina. Quando gli raccontai tutta la storia, il sangue drenò dal volto del mio preside. Ho sempre ripensato a ciò che mi disse dopo aver sentito il mio racconto. Forse voleva solo spaventarmi per fare in modo che io o altri non si avventurassero nuovamente su quel tetto, e a pensarci ciò che mi disse era qualcosa di strano da condividere con un già spaventato ragazzino. Ma lui sembrava sinceramente turbato dagli eventi che gli avevo raccontato.

Mi raccontò che molti anni prima, ancor prima che io iniziassi quella scuola, era accaduta una tragedia che coinvolse una bambina di dodici anni, di cui preferì non nominare il nome. Aveva la reputazione di essere una bambina difficile. Gli insegnanti facevano il loro meglio, cercando di simpatizzare con lei, dato che aveva una storia piena di abusi alle sue spalle. Ma la trovarono quasi impossibile da controllare: spesso lei minacciava di combattere gli altri studenti, ed era stata sospesa più volte per violenza.

Un giorno lei decise di marinare una lezione, e riuscì a convincere due altre bambine di andare assieme a lei, promettendo loro una sigaretta a testa. Così, per come andò la storia, le tre riuscirono a sgusciare via al suono della campanella del cambio d’ora e si nascosero nei bagni. I dettagli di ciò che avvenne in seguito erano meno prossimi, ma ciò che era certo era che la bambina subì un attacco di qualche tipo e morì lì dentro. Le altre bambine dichiararono di essere uscite prima che ciò accadesse, ma giravano molte voci e accuse alle quali molti credevano. Venne suggerito che la bambina era assieme alle sue amiche quando avvenne l’attacco, e per paura di essere colte a saltare la lezione e fumare le due compagne la lasciarono sola nella cabina, chiudendo la porta. Che si credesse che la bambina potesse essere curata o meno è stato oggetto di molte considerazioni. I graffi e i violenti colpi all’interno della cabina suggerivano quasi sicuramente che lei aveva continuato ad avere delle convulsioni lì dentro, probabilmente anche combinate al tentativo di fuggire o chiamare aiuto.

In seguito a ciò, l’edificio venne chiuso, mentre sia la scuola che i cittadini tentarono di lasciarsi dietro la tragedia.

Probabilmente Mr McKay inventò tutto questo solo per terrorizzarmi, prendendo la mia esperienza usandola per ideare una storia del genere, per non farmi più ritornare in quel luogo.

Sfortunatamente, emersero un paio di cose da lì. Ho effettivamente iniziato ad evitare di avvicinarmi a quell’edificio sigillato, a tutti i costi. La mia paura dell’altezza non era nulla se comparata al terrore che ora suscitava quella struttura in me. I miei compagni di classe, naturalmente, non credevano alla mia versione dei fatti, accusandomi di aver mentito su tutta quella faccenda, solo per poter non essere più preso in giro. Per quanto mi riguarda, non ho mai pensato di fare una cosa simile. Infine, iniziai ad avere un sogno ricorrente per tutta la durata della mia infanzia, un sogno da cui mi svegliavo madido di sudore, rannicchiato nel letto, urlando.  Ricordo che, in esso, mi trovavo su quel maledetto tetto, e sbirciavo da quel foro quell’abbandonato luogo, ma in qualche modo i miei ricordi sono sempre più vaghi. Tutto ciò che rimane vivido è quella porta della cabina aperta e cigolante, e qualcosa che da lì dentro mi fissava.

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